16/10/17

Piano Americano, ovvero del falso, del vero e di tutto quello che ci sta in mezzo

di Alessandro Vietti

[Ripropongo qui l'acuto post-recensione dello scrittore Alessandro Vietti, da lui pubblicato all'uscita di Piano Americano]

Se per caso me l'avete già sentito dire, perdonatemi, ma non mi stanco mai di ripetere che, a mio avviso, una delle maggiori prerogative della letteratura, quella vera, quella che conta, quella che ha più senso fare (e leggere) in ambito contemporaneo, sia quella che cerca, che tenta di percorrere nuove strade, che affronta nuovi (o vecchi) temi, ma in modi inediti, quella che rinnova le modalità espressive, che ci presenta nuovi stili, nuovi impianti, strutture innovative, quella animata da coraggio e da intenti rivoluzionari, se vogliamo. E questo è importante soprattutto oggi, un momento storico in cui il mercato editoriale (italiano) privilegia la ripetizione infinita di cliché collaudati e rassicuranti, inseguiti dagli editori per compiacere il pubblico di massa, che è quello che fa i numeri e, dunque, le vendite che contano. In poche parole, la letteratura che piace a me è quella ambiziosa, che osa. Però nel contempo tutto questo non deve neanche essere fine a se stesso, non deve servire all'autore per dire al lettore "Ehi, guarda qui come sono bravo!", nessuno vuole un semplice esercizio estetico, bensì un’energia, un'espressività e una creatività funzionali a capire (meglio) il mondo e magari rivelarci qualcosa di noi stessi in relazione con esso, qualcosa che è sepolto, ma è già dentro di noi, ma che ancora non abbiamo illuminato con la luce della coscienza. David Foster Wallace (e forse non solo lui) diceva che la letteratura migliore è quella rivelatoria, quella nella quale il lettore identifica un percorso di compartecipazione con le idee espresse dall'autore che, come in un'epifania improvvisa, gli fanno dire: "Caspita, anch'io penso questo!" e rendersi conto di averne consapevolezza per la prima volta solo in quell'esatto momento. Così quando mi capitano per le mani libri che con me riescono a fare proprio questo, e a più riprese, è inutile: godo.
Ecco, "Piano americano" di Antonio Paolacci fresco di uscita per Morellini Editore, riesce nel miracolo di fare tutto questo con un romanzo (ma è davvero un romanzo?) che osa e, come in un variegato mosaico di stili, registri, addirittura generi, mette insieme una tessitura narrativa unica e straordinaria. Non è un caso che infatti, l'idea che ci si fa fin dalle prime pagine è che questo sia un po' il romanzo-mondo di Paolacci, quello in cui lui ha voluto mettere tutto se stesso e, in qualche modo, che lui stesso ci rivela fin dalle prima pagine, il romanzo che coincide con un momento unico della sua vita, il momento in cui sta per diventare padre, quella prospettiva che fa guardare alla propria vita, sia al passato, che al futuro, in un modo diverso, il modo in cui ci si rende conto di essere sul punto di attraversare un passaggio cruciale nell'ambito della propria esperienza, una specie di rinascita che cambia parecchi (tutti?) paradigmi su come si vede se stessi e il mondo. È talmente il romanzo della sua vita, questo di Paolacci, da essere addirittura quello che non scriverà. E’ lui stesso che ci rivela, fin dal principio, la sua decisione irrevocabile di smetterla con questa inutile e frustrante attività chiamata "scrivere", visto che questo maledetto romanzo che aveva in testa, intitolato "Piano americano", non sarebbe mai andato da nessuna parte, sarebbe stata l'ennesima perdita di tempo per un mondo editoriale ormai distante anni luce da quella che dovrebbe essere la vera letteratura, un mondo editoriale che, "invece di leggere autori difficili e impegnarmi a scrivere in un certo modo", gli suggerisce piuttosto di "andare più spesso dal barbiere e vestirmi meglio [...] e sembrare di più uno scrittore".

Si capisce quindi fin dalle prime battute che non siamo dentro una narrazione pura, ma una narrazione che narra se stessa a partire dal dato autobiografico del suo autore, un racconto che si fa subito paradossale, perché è già il contrario di quello che dice. Paolacci a un certo punto cita Dostoevskij: "La verità reale è sempre inverosimile [...]- Per rendere la verità più verosimile, bisogna assolutamente mescolarvi della menzogna." Ebbene, non è forse questo il potere unico della letteratura? Arrivare alla verità passando per la finzione? Il problema è che oggi tutto è racconto, l'era dell’informazione si è trasformata in era della narrazione, era della “Fiction Cloud”, dove tutto viene narrato e tutto è mescolato insieme: lo sono i tg, i post sui social, i film, i giornali, le serie tv e pure questa recensione, ma ovviamente non tutto è realtà: non lo sono i tg, non lo sono i post sui social, non lo sono (per niente) le serie tv, e probabilmente in qualche misura non lo è nemmeno questa recensione. E proprio questa eccedenza di media, di comunicazione, di informazioni (spesso contrastanti) e di racconto, rende la discriminazione tra realtà e finzione, oggi, un confine liquido, con tutto ciò che ne consegue per noi in termini di conoscenza - vera o presunta - e di reazioni a essa. Per aiutarci a uscirne, o almeno per darci qualche strumento per provarci, magari solo un paio di lenti nuove per i nostri occhiali, Paolacci mette così in scena un valzer trascinante e strabiliante, ritmato sui tre tempi di realtà, finzione e narrazione, in cui dentro lo stesso tessuto ci racconta la sua storia (ma fino a che punto è vera, o è falsa?), ti inchioda su "Psycho" (con l'acca) e "Kill Bill", ci narra la vicenda - quasi una spy-story - di un Uomo (stranamente) Invisibile che assomiglia (stranamente) a "un noto imprenditore che negli anni aveva creato un impero economico nel nostro Paese e che infine da vecchio, sarebbe sceso in politica per imperversare sulla scena degli affari pubblici" (ma, attenzione, non è affatto detto che si tratti proprio di "quel vecchio" cui stai pensando tu adesso), e ci parla di quello che la letteratura (e uno scrittore) dovrebbe fare ed essere oggi, ma forse anche il cinema, la politica e la società. Il tutto attraverso l'inquadratura di un Piano Americano, che non è quella inventata per fare vedere le fondine delle pistole nei western, come molti credono, ma quella che serve per mostrare il personaggio (il lettore) ancora abbastanza vicino all'obiettivo (dello scrittore), eppure comunque già calato nell'ambiente che lo circonda (il mondo).

Antonio Paolacci, editor, già direttore editoriale del marchio Perdisa Pop del compianto Luigi Bernardi, insegnante di scrittura creativa e autore di altri romanzi come "Flemma" e "Salto d'ottava", uno che lavora sui libri, coi libri e per i libri, ci consegna così un romanzo innovativo e coraggioso, un libro in bilico tra disperazione e rinascita, tra rabbia e coraggio, un libro che trascende ogni genere e ogni categoria, e che proprio per questo è una ventata d'aria di montagna in un panorama chiuso e stantio, soffocante e soffocato, e che quando l'avrete finito sospirerete, lo chiuderete piano e direte: "Wow!" E correrete a cercare qualcuno con cui parlarne. Nel caso, sapete dove trovarmi.