16/07/14

Binaghi a Sanremo (con una riflessione implicita sul crollo del mercato editoriale)

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla.

Ieri sera ho partecipato a una gran bella serata in onore di Valter Binaghi.
L’incontro si è svolto all’interno del Casinò di Sanremo, perché l’ultimo libro di Valter ha per tema il gioco d’azzardo.
E solo adesso, nel dare questo titolo a questo post, mi rendo conto che ha una certa potenzialità ironica, dico il titolo prima della parentesi, dal momento che lo scrittore Binaghi, tra l’altro, cantava.
Certo, come «cantante» Valter era lontano da Sanremo più o meno quanto la Terra dista da Krypton, e mi scuso per la qualità della battuta, ma terrò questo titolo, anche perché in qualche modo il suo lato sarcastico c’entra con quanto sto per dire.

In effetti potrei elencare diverse strane coincidenze che riguardano Valter e me. Tra le quali c’è il fatto che il suo nome apre e chiude cronologicamente il catalogo Perdisa Pop, e Valter è stato uno degli uomini che più ha saputo darmi forza sia quando ho esordito come autore (con Perdisa Pop) sia dopo, quando ho iniziato a fare l’editor. Parlare con lui, ascoltarlo, leggerlo significava vedere la caparbietà in azione, l’ostinazione se preferite, ma soprattutto la necessità di non tollerare mai l’idiozia e non accettare compromessi anche quando tutto intorno sembra crollare.

Poi oggi, a un anno quasi esatto dalla sua scomparsa, a causa di Valter Binaghi (chi l’avrebbe mai detto) mi sono svegliato nientemeno che in un albergo di Sanremo.
A metà mattina ho attraversato il paese a piedi, diretto in stazione, e ho guardato con attenzione dov’ero. La spiaggia era piena di bagnanti e il centro era un insieme variegato di persone a passeggio, turisti francesi, tedeschi, liguri, e ovviamente mucchi di fiori.
Perché, come sapete, quel paese conta poco più di cinquantamila abitanti eppure è molto famoso per almeno tre cose diverse (la seconda è il Casinò, la terza i fiori).
Un posto strano, insomma, dove a luglio per esempio puoi incontrare bambini francesi col gelato in mano che chiedono ai genitori chi diavolo sia quel tizio della statua in via Matteotti, lì a pochi metri dal teatro Ariston, e vedere che i genitori non sanno rispondere, essendo giustamente all’oscuro dell’importanza storica di Mike Bongiorno.

Sì. C’è davvero. Io l’ho vista. Potrebbe sembrare l’installazione di un artista graffiante, potete interpretarla come una provocazione, potete fingere che sia uno scherzo situazionista, ma è proprio una statua in memoria di Mike Bongiorno, e ovviamente potete riderne, tollerarla, abituarvi all’idea, ma qui nessuno vi biasimerà se direte che anche a voi fa accapponare la pelle.

Gli scrittori, quelli veri, ci insegnano che molte cose in apparenza innocue possono essere considerate da diversi punti di vista. Per esempio: Sanremo è proprio una bella cittadina, piena di fiori e canzoni d’amor, ma basta spostare appena il punto di vista e i fiori possono diventare un simbolo supremo di mascheramento, di distrazione, di copertura, e allora questo posto potrebbe apparire come un luogo rancido, ricoperto di colori e profumi artificiosi, dove regnano piuttosto frustrazione e brama di successo, dolore inflitto dal gioco d’azzardo, dal tritacarne dell’industria dello spettacolo, dalle crisi d’astinenza.

E, vista così, Sanremo potrebbe trasformarsi nella capitale simbolica di quella realtà rappresentata dai mezzi di rincoglionimento di massa.
C’è un mondo là fuori fatto di gente che crede nel successo, che crede che il successo sia quella cosa fatta di soldi e televisione, e che confonde questo pseudo-successo con l’importanza. Lo confonde al punto da erigere monumenti a figure che non hanno dato nessun contributo né al progresso né alla conoscenza.

E così vengo al punto. Cioè torno a Valter Binaghi.
Dello scrittore che è stato (che è) si potrebbe parlare a lungo. Ieri sera lo abbiamo fatto per un paio d’ore e siamo riusciti a stento a dare alcune informazioni minime.
Valter ha scritto libri che rifiutano ogni piattezza, sempre alla ricerca di altre verità. E anche quando ha usato i generi di intrattenimento non ha mai ceduto di un passo alla cultura dell’intrattenimento. Anzi. Ha scritto pagine dure e precise contro la non-cultura propria di un mondo che a Sanremo, a prima vista, sembra l’unico mondo possibile.

Perché, vedete, io stamattina a Sanremo ho pensato per l’ennesima volta quello che pensa ogni pensona che ha letto un po’ di libri e si ritrova, mettiamo, in via Montenapoleone a Milano: che esistono due specie animali diverse, entrambe definite «umane» ma lontane tra loro come le ostriche dai volatili (per dire). E non parlo di classi sociali. Parlo di uso del cervello, di due universi tanto separati che non sono in grado di capirsi, di comunicare o trasferirsi a vicenda una minima informazione che sia utile. Due mondi che ieri sera a Sanremo erano rappresentati rispettivamente dai lettori (e autori) di libri e dal contesto in cui questi si incontravano, un contesto fatto di canzoni inascoltabili che fatturano come anni di un lavoro ragionevole, di occhi spenti alle slot machine, di corpi pericolanti come impalcature che sorreggono a fatica vestiti e opere decennali di chirurgia estetica.

Si sarebbe divertito Valter Binaghi se ieri sera fosse stato con noi al Casinò di Sanremo?
Non ne ho idea. Forse no. Forse avrebbe litigato con qualcuno, forse avrebbe fatto un’acuta riflessione su quanto l’editoria attuale stia cercando di adeguarsi ai non-gusti di quella specie animale detta «umana» eppure tanto diversa da noi, ma forse avrebbe sorriso all’idea di essere celebrato proprio lì, come una mina piazzata al punto giusto, al centro della tana del nemico, là dove si erigono statue in memoria di tizi che reggono in mano – invece che armi, fiaccole o libri – una scritta che indica in breve il modo migliore per non vedere la realtà: Allegria, punto esclamativo.