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31/08/15

Il mio primo romanzo

Il mio primo romanzo è uscito nel 2007. Si intitola Flemma e sta per uscire di nuovo, ripubblicato da Morellini Editore.
L’avevo scritto tra il 2005 e il 2006 e ci avevo impiegato più di anno, non solo perché era per me un lavoro ambizioso, ma anche perché il lavoro (ambizioso) consisteva in buona parte nella definizione di me stesso come autore, nella ricerca e nel rispetto della mia voce, nella delimitazione di una mia scrittura.
Il romanzo aspirava a un’estetica sociale e letteraria insieme: guardando da una certa distanza i generi tradizionali legati al tema del crimine, della colpa e dell’innocenza, in Flemma ho inseguito il respiro di una generazione che mi pareva muoversi come un adulto divenuto improvvisamente cieco e che non fosse in grado tuttavia di ammetterlo. Si era a metà degli anni Zero, mentre scrivevo, e la situazione scandalosa di dominio da parte della mediocrità non aveva ancora colpito le mie fondamenta: l’operazione aveva senso. Mi pareva che le menti migliori cercassero di venire a capo dei fenomeni culturali e sociali che tormentavano anche me. E lavorai in questa direzione, come facevano loro. Mi dedicai quindi alla disgregazione delle disgregazioni, costruendo un romanzo che Valter Binaghi avrebbe poi definito “una scomposizione cubista della scena del crimine”. Non guardavo alle forme consolidate della narrativa italiana: guardavo oltreoceano, anche convinto del fatto che la mia generazione avesse maggiore dipendenza dalla cultura americana che da quella europea, essendo noi cresciuti più davanti a uno schermo che per strada.
A stesura terminata, lo inviai a una persona soltanto. Lo inviai solo a Luigi Bernardi, che all’epoca era stato il mio insegnante in un paio di corsi di scrittura. Passò un mese, poi due, poi tre, poi Luigi mi mandò un SMS, nel quale diceva: Sei pronto all’esordio. Sei mesi dopo Flemma era in libreria e io iniziavo a diventare l’uomo che sono oggi. Di lì a poco avrei iniziato a lavorare con Luigi ai libri Perdisa Pop, nel giro di qualche anno sarei diventato editor e direttore editoriale.

Intorno al 2008, Luigi mi disse che Flemma aveva diritto a una seconda vita almeno. Mi disse che avrei dovuto prima o poi fare qualcosa per farlo esistere in un nuovo contesto editoriale. Così ho fatto, appena mi è stato possibile, cioè nel 2015, quando scadeva il contratto della sua prima edizione.
Ed eccoci qui: molte cose sono cambiate in me e intorno a me. Il lavoro editoriale mi ha insegnato ciò che sempre insegna l’esperienza, ovvero il disincanto. Ed è forse inutile dirvi che rileggere Flemma oggi vuol dire per me leggere un romanzo che non riscriverei più, non a quel modo. Ma è giusto così: l’autore di quel libro era un tizio di poco più di trent’anni che non sono più io: un autore con un’altra voce e altre idee sulla propria scrittura, ma un autore che aveva cose da dire e che mi sembra ancora capace di dirle in quelle pagine.
Su questo mi sono confrontato con il nuovo editore, come era giusto. La domanda che ci ponevamo riguardava il grado di rispetto che dovevo a quel testo. Da parte mia sapevo di doverne rispettare l’indole, perché il suo bello è anche nascosto nella sua attuale distanza da me. Era un romanzo autentico, molto sentito, carico di partecipazione.
Alla fine ho deciso di fare una sola modifica importante. Ho eliminato in particolare uno dei personaggi, il che non ha quasi cambiato il libro, e per niente le intenzioni che lo animavano, ma ha reso possibile la rimozione di una dose eccessiva di informazioni, tipica dell’esordiente.


La nuova versione è dedicata alla memoria di Luigi Bernardi e Valter Binaghi.

16/07/14

Binaghi a Sanremo (con una riflessione implicita sul crollo del mercato editoriale)

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla.

Ieri sera ho partecipato a una gran bella serata in onore di Valter Binaghi.
L’incontro si è svolto all’interno del Casinò di Sanremo, perché l’ultimo libro di Valter ha per tema il gioco d’azzardo.
E solo adesso, nel dare questo titolo a questo post, mi rendo conto che ha una certa potenzialità ironica, dico il titolo prima della parentesi, dal momento che lo scrittore Binaghi, tra l’altro, cantava.
Certo, come «cantante» Valter era lontano da Sanremo più o meno quanto la Terra dista da Krypton, e mi scuso per la qualità della battuta, ma terrò questo titolo, anche perché in qualche modo il suo lato sarcastico c’entra con quanto sto per dire.

In effetti potrei elencare diverse strane coincidenze che riguardano Valter e me. Tra le quali c’è il fatto che il suo nome apre e chiude cronologicamente il catalogo Perdisa Pop, e Valter è stato uno degli uomini che più ha saputo darmi forza sia quando ho esordito come autore (con Perdisa Pop) sia dopo, quando ho iniziato a fare l’editor. Parlare con lui, ascoltarlo, leggerlo significava vedere la caparbietà in azione, l’ostinazione se preferite, ma soprattutto la necessità di non tollerare mai l’idiozia e non accettare compromessi anche quando tutto intorno sembra crollare.

Poi oggi, a un anno quasi esatto dalla sua scomparsa, a causa di Valter Binaghi (chi l’avrebbe mai detto) mi sono svegliato nientemeno che in un albergo di Sanremo.
A metà mattina ho attraversato il paese a piedi, diretto in stazione, e ho guardato con attenzione dov’ero. La spiaggia era piena di bagnanti e il centro era un insieme variegato di persone a passeggio, turisti francesi, tedeschi, liguri, e ovviamente mucchi di fiori.
Perché, come sapete, quel paese conta poco più di cinquantamila abitanti eppure è molto famoso per almeno tre cose diverse (la seconda è il Casinò, la terza i fiori).
Un posto strano, insomma, dove a luglio per esempio puoi incontrare bambini francesi col gelato in mano che chiedono ai genitori chi diavolo sia quel tizio della statua in via Matteotti, lì a pochi metri dal teatro Ariston, e vedere che i genitori non sanno rispondere, essendo giustamente all’oscuro dell’importanza storica di Mike Bongiorno.

Sì. C’è davvero. Io l’ho vista. Potrebbe sembrare l’installazione di un artista graffiante, potete interpretarla come una provocazione, potete fingere che sia uno scherzo situazionista, ma è proprio una statua in memoria di Mike Bongiorno, e ovviamente potete riderne, tollerarla, abituarvi all’idea, ma qui nessuno vi biasimerà se direte che anche a voi fa accapponare la pelle.

Gli scrittori, quelli veri, ci insegnano che molte cose in apparenza innocue possono essere considerate da diversi punti di vista. Per esempio: Sanremo è proprio una bella cittadina, piena di fiori e canzoni d’amor, ma basta spostare appena il punto di vista e i fiori possono diventare un simbolo supremo di mascheramento, di distrazione, di copertura, e allora questo posto potrebbe apparire come un luogo rancido, ricoperto di colori e profumi artificiosi, dove regnano piuttosto frustrazione e brama di successo, dolore inflitto dal gioco d’azzardo, dal tritacarne dell’industria dello spettacolo, dalle crisi d’astinenza.

E, vista così, Sanremo potrebbe trasformarsi nella capitale simbolica di quella realtà rappresentata dai mezzi di rincoglionimento di massa.
C’è un mondo là fuori fatto di gente che crede nel successo, che crede che il successo sia quella cosa fatta di soldi e televisione, e che confonde questo pseudo-successo con l’importanza. Lo confonde al punto da erigere monumenti a figure che non hanno dato nessun contributo né al progresso né alla conoscenza.

E così vengo al punto. Cioè torno a Valter Binaghi.
Dello scrittore che è stato (che è) si potrebbe parlare a lungo. Ieri sera lo abbiamo fatto per un paio d’ore e siamo riusciti a stento a dare alcune informazioni minime.
Valter ha scritto libri che rifiutano ogni piattezza, sempre alla ricerca di altre verità. E anche quando ha usato i generi di intrattenimento non ha mai ceduto di un passo alla cultura dell’intrattenimento. Anzi. Ha scritto pagine dure e precise contro la non-cultura propria di un mondo che a Sanremo, a prima vista, sembra l’unico mondo possibile.

Perché, vedete, io stamattina a Sanremo ho pensato per l’ennesima volta quello che pensa ogni pensona che ha letto un po’ di libri e si ritrova, mettiamo, in via Montenapoleone a Milano: che esistono due specie animali diverse, entrambe definite «umane» ma lontane tra loro come le ostriche dai volatili (per dire). E non parlo di classi sociali. Parlo di uso del cervello, di due universi tanto separati che non sono in grado di capirsi, di comunicare o trasferirsi a vicenda una minima informazione che sia utile. Due mondi che ieri sera a Sanremo erano rappresentati rispettivamente dai lettori (e autori) di libri e dal contesto in cui questi si incontravano, un contesto fatto di canzoni inascoltabili che fatturano come anni di un lavoro ragionevole, di occhi spenti alle slot machine, di corpi pericolanti come impalcature che sorreggono a fatica vestiti e opere decennali di chirurgia estetica.

Si sarebbe divertito Valter Binaghi se ieri sera fosse stato con noi al Casinò di Sanremo?
Non ne ho idea. Forse no. Forse avrebbe litigato con qualcuno, forse avrebbe fatto un’acuta riflessione su quanto l’editoria attuale stia cercando di adeguarsi ai non-gusti di quella specie animale detta «umana» eppure tanto diversa da noi, ma forse avrebbe sorriso all’idea di essere celebrato proprio lì, come una mina piazzata al punto giusto, al centro della tana del nemico, là dove si erigono statue in memoria di tizi che reggono in mano – invece che armi, fiaccole o libri – una scritta che indica in breve il modo migliore per non vedere la realtà: Allegria, punto esclamativo.

05/04/14

Un giorno vi racconterò cos’era davvero Perdisa Pop | Articolo


Non so quante volte ho sentito Luigi Bernardi iniziare una frase con «Un giorno vi racconterò».
Era il suo modo per far capire ai meno informati che l’editoria è molto diversa da ciò che credono sia: «Un giorno vi racconterò come lavorano davvero quelli di [una nota casa editrice]», diceva. Oppure: «Un giorno vi racconterò come la pensa davvero [uno scrittore famoso]».
Poi questo giorno non veniva mai, non raccontava niente alle persone di cui non si fidava, ma riusciva comunque a insinuare dubbi, che è poi il primo dovere del vero narratore.

Quando mi annunciò che avrebbe lasciato l’editoria, per me non fu una sorpresa. Da almeno un paio d’anni mi diceva che era stufo, che voleva scrivere e basta, che appena possibile lo avrebbe fatto. E io, per quanto temessi che alle sue dimissioni avrei perso il lavoro, non cercavo di dissuaderlo: ogni volta gli dicevo che l’avrei fatto anch’io, se avessi potuto; che se io ero stanco dopo pochi anni, figurarsi lui dopo più di trenta.
La notizia vera e propria me la diede alla fine del 2010. Della sua malattia non sapeva ancora nulla. Smetteva di fare l’editor perché non ne poteva più e voleva scrivere, scrivere e basta.

Mi invitò a pranzo a casa sua. Mangiammo crescentine e tigelle parlando delle cose che stavamo scrivendo, bevemmo chinotto, due caffè a testa, dopodiché mi disse che aveva deciso: smetteva, e voleva lasciare a me la direzione di Perdisa Pop.
Mi chiese se me la sentivo. Risposi di sì, naturalmente. A quel punto diventò serio e mi fece un discorso che non dimenticherò.
Disse che in oltre trent’anni non aveva mai visto l’editoria conciata tanto male. Un mestiere allo sfascio, diceva, dove per fare qualcosa di interessante ti tocca combattere in modo iniquo con un esercito di imbecilli che affossano l’intelligenza.
Aggiunse che anche Perdisa Pop non avrebbe retto ancora a lungo. Per cui dovevo pensarci bene: se accettavo di dirigere il marchio dovevo accollarmi il grosso rischio che la fine di Perdisa Pop – se fosse arrivata dopo pochi mesi dalle sue dimissioni – sarebbe stata attribuita a me.
Gli chiesi se secondo lui poteva durare almeno un anno. Mi rispose che, nelle condizioni in cui si era all’epoca, sarebbe stato difficile. Occorreva inventarsi qualcosa, e dovevo farlo io, se accettavo, dal momento che lui non ne poteva più.

Difatti, nel settembre del 2011, Alberto Perdisa mi comunicò che intendeva chiudere di lì a due mesi.
Ne erano passati appena cinque dalle dimissioni di Bernardi e il primo titolo con me in veste di direttore editoriale non era ancora nemmeno in libreria. Come editor ero bruciato.
O meglio, avevo due sole possibilità: diventare uno dei troppi aspiranti editor armati di curriculum sui pianerottoli di altri editori (con l’aggravante di aver diretto un marchio giusto il tempo della sua fine), oppure combattere con l’unica arma che avevo: altri due mesi prima della chiusura.

Ridisegnai piani editoriali e strategie aziendali, cercai autori precisi da pubblicare, reimpostai la comunicazione della casa editrice… Le mie mosse erano bollate come fallimentari da quasi tutti: si trattava di dichiarare apertamente la nostra politica e prendere la strada contraria a quella imboccata dall’editoria attuale, ridurre le uscite annuali, licenziare i promotori, arrivare ai lettori aggirando la distribuzione, e pubblicare con orgoglio testi non commerciali, scritti da italiani conosciuti solo a pochi e caratterizzati anzitutto da una buona scrittura. Il che significava niente menzogne ai lettori, niente mode del momento, nessun preconcetto sulla stupidità del pubblico, nessuna marchetta, nessun compromesso.
E all’inizio del 2012 c’erano già troppe buone notizie perché l’editore potesse mandarmi a casa: i nostri lettori aumentavano, arrivavano ottime recensioni e molti complimenti. In condizioni migliori avremmo potuto crescere notevolmente, ma, anche con i nostri scarsi mezzi e nelle difficoltà generali, un anno dopo eravamo una delle poche piccole case editrici italiane in crescita, e forse l’unica (stando almeno a quanto gli altri dicevano e dicono). Meno di due anni dopo, concorrevamo ai principali premi nazionali e si parlava bene dei nostri libri sulle più importanti testate nazionali.

Ciò non toglie che Luigi Bernardi avesse ragione.
Da anni, ormai, le personalità più influenti in editoria distorcono le idee stesse di scrittura e letteratura. Non importa qui stabilire gli scopi di certe politiche, ma che tali politiche siano in atto è innegabile.
L’etica (anche lavorativa), l’onestà (anche intellettuale) e soprattutto la straordinaria potenza politica e sociale della letteratura sono in crisi nera. Non parlo della crisi economica – che c’è, ed è grave, ma è un’altra cosa. Parlo di problemi serissimi di disonestà (anche intellettuale), parlo di menzogne, di esaltazione di valori sbagliati, parlo di esistenze sprecate, di tempo e soldi rubati a tutti, autori e lettori. Parlo di politiche a-culturali che hanno ormai incistato nel pensiero comune l’idea che il libro sia un prodotto da supermercato, laddove è non solo metro di civiltà, ma è anche evoluzione personale, ed è piacere puro, uno dei più irrinunciabili che io conosca.

Negli anni di lavoro insieme, Bernardi mi ha insegnato anche a fronteggiare la paura. Ogni volta che mi parlava di cadute, io imparavo che, quando si cammina su terreni accidentati, cadere fa parte dell’atto di camminare. E che a volte, rialzandosi, è bene cambiare strada.

Quel pomeriggio del dicembre del 2010, dopo il secondo caffè, mi disse che avrebbe aspettato un bel po’, prima di comunicare a tutti che lasciava a me la direzione di Perdisa Pop. Avrebbe smesso ufficialmente all’inizio di aprile 2011: doveva essere aprile, mi spiegò, perché aveva iniziato a lavorare in editoria ad aprile del 1978 e voleva smettere esattamente al compimento del trentatreesimo anno di attività.
La sua fissazione per la precisione matematica era da Guinness. Ne rideva lui stesso, ma gli piaceva troppo, non poteva resisterle. E così sono diventato ufficialmente direttore editoriale il 5 aprile del 2011.

Questo per spiegarvi il motivo per cui ho atteso fino a oggi per comunicarvi quanto segue.
È per me una specie di tributo: oggi, 5 aprile 2014, la mia direzione di Perdisa Pop compie tre anni tondi, ed è quindi il giorno migliore per annunciare che non continuerà.

I motivi non vi importino. Di fatto, sono venute meno le condizioni basilari perché io possa continuare a svolgere concretamente questa attività. E a voi basti sapere che Perdisa Pop continua regolarmente a vendere i titoli in catalogo.
Quanto a me, vi darò notizie a tempo debito. Lo farò molto presto, ma non subito: se c’è un’altra cosa che mi ha insegnato Bernardi sull’editoria è che è piena di orecchie pericolose o, come avrebbe detto lui, di teste di cazzo.

In ogni caso sto lavorando. E non da solo, né solo per me stesso.
I tempi sono difficili e conoscere bene il proprio lavoro non è più sufficiente. Ma mentre assistiamo allo strangolamento di professioni fondamentali, tendiamo a dimenticare cosa siamo, tendiamo a dimenticare che l’editoria e la scrittura non possono e non devono essere considerati come lavori da mercanti, perché non lo sono.
E va precisato che non lo sono proprio, in concreto, che non si tratta cioè di avvolgerli in una coltre di romanticismo, ma di prendere coscienza di una realtà: l’atto di leggere è diverso dall’atto del comprare o del consumare prodotti alla moda. Ha un altro mercato, un altro target.

In questo contesto angosciato e sfiancante, dove si continua ad alimentare un’idea malsana di cultura e di letteratura, resto convinto che si possa reagire.
Occorre però il coraggio di farlo davvero. Il che, per chiunque come me lavora in questi ambiti, sembra difficile. Non siamo eroi, siamo persone con altre competenze. E siamo abituati a dubitare.
Solo che, assuefatti all’idea che sarebbe meglio non rischiare, alle volte rischiamo molto di più: accettiamo compromessi assurdi che ci porteranno a lavorare male e a fallire comunque, scontenti dei risultati e senza nemmeno un grazie da portarci a casa.

Quello che invece farò io è raccogliere le forze ancora una volta e ancora una volta creare, per quanto possibile, nuove occasioni. Ci sono competenze da mettere a frutto, voci da ascoltare, percorsi da scoprire, follie da realizzare, rabbia da usare come carburante.
Prendere le distanze da certe logiche e da certi mestieranti non è un vezzo artistico, è nostro dovere professionale.
Se preferiamo rimanere sui tristi sentieri tracciati da altri, piuttosto che indicarne di nuovi, non siamo scrittori, non siamo artisti, e non siamo editori. Se non sappiamo osare, non siamo ciò che millantiamo di essere, né mai potremmo esserlo.

15/01/14

L'ultimo libro di Valter Binaghi

Pubblico anche qui la mia nota introduttiva al romanzo Nome al tavolo Blackjack dell'amico Valter Binaghi, scomparso nel luglio del 2013.

Il romanzo che avete tra le mani è l’ultimo di Valter Binaghi. All’inizio dell’estate del 2013 fu lui stesso a dirmelo al telefono: «Questo sarà il mio ultimo libro». Era il suo modo di comunicarmi quanto si fosse aggravato.
Avevamo da tempo fissato l’uscita in autunno. Avremmo dovuto lavorarci in estate, ma in realtà lo stavamo facendo dall’inizio dell’anno, sempre al telefono: Valter mi chiamava per chiedermi opinioni su possibili modifiche e ogni volta ribadiva che durante l’editing avrei dovuto essere inflessibile, senza limitarmi nelle critiche e nei suggerimenti. Non che fosse davvero perplesso. Gli piaceva discuterne e confrontarsi con me, ma secondo lui il romanzo era finito.
La notizia della sua morte mi arrivò poche settimane dopo quella telefonata. Era il 12 luglio del 2013.

30/04/13

Altri libri da Eataly | La tavola degli indipendenti

Partendo da un’idea di Antonio Paolacci, direttore editoriale di Perdisa Pop e promotore dell’iniziativa, un gruppo di editori indipendenti ha deciso di unirsi in modo alternativo in occasione della prossima edizione del Salone internazionale del libro di Torino.
Per rivendicare l’importanza della propria diversità e il diritto di essere raggiunti dal pubblico, in un contesto editoriale sempre più gestito dai grandi gruppi, le case editrici DeriveApprodi, :duepunti edizioni, Hacca, La Linea, Laurana, Melampo e Perdisa Pop saranno insieme per una serie di eventi in uno spazio esterno al Salone: la sede torinese di Eataly.
In questa sede si terranno incontri e dibattiti su letteratura ed editoria, verrà allestito uno spazio espositivo per la vendita dei libri e saranno presentati a lettori e stampa i progetti, le novità e le anteprime di ciascun editore aderente all’iniziativa.


La scelta di incontrare lettori e stampa in uno spazio diverso non è in polemica con il Salone del libro, al quale parteciperanno comunque alcuni degli editori presenti in contemporanea da Eataly. Nasce tuttavia dall’esigenza di richiamare l’attenzione sull’editoria indipendente e sulle sue potenzialità, all’interno di un sistema di mercato che ne limita la visibilità e la crescita.


Per questo gli incontri saranno aperti anche agli interventi dei rappresentanti di altre case editrici, che saranno invitati a partecipare attivamente.


Eataly, ospite e partner sostenitore dell’iniziativa, ha tra i suoi punti di forza l’offerta di prodotti gastronomici di alta qualità, benché spesso sconosciuti al pubblico di massa e non reperibili attraverso i normali canali commerciali della grande distribuzione. Come molti editori indipendenti, si rivolge dunque a un pubblico curioso, attento, esigente. È nata così questa partnership, semplicemente per una condivisione di valori e di obiettivi.



DOVE:


Sala Punt & Mes
Eataly Lingotto
via Nizza, 230 – Torino


QUANDO:


Giovedì 16 e venerdì 17 maggio 2013.

In contemporanea con l’apertura della XXVI edizione del Salone internazionale del libro.

18/12/12

Interviste credibili: Antonio Paolacci




[Gianni Montieri intervista Antonio Paolacci per Poetarum Silva]


Ciao Antonio, come ci si sente a ritrovarsi con un terremoto sotto il culo?
Più o meno come il personaggio di John Travolta nella scena di Pulp Fiction in cui esce dal gabinetto e c’è Bruce Willis. Ciao Gianni.

Bologna (la città in cui vivi) com’è in questi anni? Com’è cambiata? Cosa le è rimasto addosso di quel fascino che la rendeva (a seconda dei casi) “la dotta” “la viva” “la saggia” (questa me l’ha detta un amico anni fa)?
Ho idea che anche in questa intervista sembrerò uno che non vede l’ora di lamentarsi. Molto bene. La risposta è: assai poco. Di dotto e saggio a Bologna è rimasto un solido ricordo e poco più, però diciamo che a suo favore ha la scusa di essere in compagnia di tutta l’Italia.

Quando ti arriva sul tavolo un manoscritto qual è la prima cosa che fai o che pensi, prima di cominciare a leggerlo?
Prima lo giudico dall’aspetto. Per quanto possa sembrare ingiusto, non lo è: la mediocrità di certi lavori si capisce da come sono presentati. C’è chi perde tempo in copertine sceme, disegni da scuola elementare, impaginazioni estrose, ecc. Poi ci sono le lettere di presentazione dalle quali si capisce che gli autori sono spesso vittime di equivoci e luoghi comuni sulla scrittura e l’editoria. In ogni caso, quando poi mi metto a leggere, quello che di solito penso è la nota frase: «Il cucchiaio non esiste».

Dal 2011 sei il Direttore di Perdisa Pop, quanto è divertente e quanto è difficile?
Difficile è fare questo mestiere per chiunque, negli ultimi anni, perché occorre combattere con soggetti esterni alle case editrici, persone che decidono troppo e con criteri discutibili. Parlo di chi ha il potere di dare visibilità ai libri, dai giornali ai premi letterari, dai distributori ai librai, i quali dettano spesso legge – o ci provano – perfino nei nostri piani editoriali, consigliando per esempio un certo cerchiobottismo, dal momento che trovano saggio accontentare un po’ tutti e non offendere nessuno. E io sono pessimo, nel cerchiobottismo. Però posso dire che ho imparato ad affrontare diverse difficoltà a modo mio, riuscendo a portare avanti quello che credo sia giusto senza accettare troppi compromessi. Ecco, di divertente c’è quest’ultima cosa, tra le altre che credo siano più intuibili.

Tutto quello che ti viene in mente se ti dico: David Foster Wallace.
Tutto? Per carità, facciamo che ti dico solo una cosa piccola e un po’ personale, altrimenti non riuscirò mai a finire questa intervista. Penso che il suo modo di intendere e vivere la scrittura fosse esemplare. Credo sia anche per questo che nel leggerlo si sentono il potere e il piacere della migliore letteratura, al di là di ogni faccenda teorica, stilistica o tematica. Non perdeva mai di vista il fatto che osservare e raccontare il mondo con attenzione, ma anche con la consapevolezza di quanto sia facile sbagliare, è più che la base di un mestiere, è il punto di partenza di tutte le nostre azioni, quindi è concretamente più importante di ogni altra cosa. Wallace è uno dei pochi, pochissimi, scrittori che nei momenti di sconforto riescono a ricordarmi perché ho scelto di scrivere. La mia ammirazione non c’entra con il fanatismo e tanto meno con l’emulazione. C’entra semmai con la gratitudine.

Una cosa che ti viene in mente se ti dico: Luigi Bernardi.
Senza dubbio il fatto che da ragazzino io ho passato una lunga, bellissima giornata con Michel Platini, e lui no. (Questa la pagherò con un sonoro vaffanculo.)

Ma davvero a Bologna state sempre a mangiare?
Guarda. A Bologna non sanno fare i dolci, per non parlare del pane. Bisogna che questo si sappia.

Parliamo di e-book, il tuo ultimo libro “Tanatosi” è uscito soltanto in formato elettronico, seguito da altri tre titoli (di Domenichini, Naspini e Bernardi), è molto più di una scelta di campo.
È insieme un progetto, un esperimento e una provocazione. Proporre certi autori italiani ai lettori italiani come si è sempre fatto, oggi sembra una specie di impresa, ostacolata da distributori, giornali, librerie… In un momento come questo può valere la pena fermarsi un attimo e fare un passo indietro per osservare il panorama in prospettiva. E magari porsi delle domande basilari, per esempio su cosa siano per noi la lettura, la scrittura, la letteratura, su quanto pensiamo che possa durare nel tempo il singolo libro, su cosa ci aspettiamo che ci dia in cambio dei soldi o del lavoro che ci chiede. Che peso gli diamo in generale, insomma. E in questo “noi” includo tutti: lettori, scrittori, editori, critici, distributori e librai. Gli ebook sono ancora una specie di mostro, nell’immaginario di molti. Ma ideare questa collana e farla partire con un titolo mio nel 2012 è stata una di quelle idee che vengono in un lampo e quadrano da subito. Per intenderci: credo che Tanatosi sia uno dei miei scritti migliori, se non il migliore in assoluto, e se fino a oggi è anche quello che ha venduto meno, non mi importa. Sapevo che sarebbe andata così. Il punto è che è là, disponibile in pochi minuti e a pochi euro, per chiunque abbia accesso a internet e voglia di leggerlo.

Ti ho conosciuto come scrittore, qualche anno fa, guardando il catalogo di Perdisa Pop, scelsi il tuo libro “Salto d’ottava” perché mi piaceva il titolo (ebbene commetto ancora simili peccati, perché tu no?) poi mi è piaciuto pure il libro, lo stile e quel misto di realismo e visionarietà. Mi piacque sia la storia che lo stile, non ho ancora letto “Tanatosi” (perché ho rimandato l’acquisto dell’E-reader, vabbè a Natale arriva) ma tutti me ne parlano in maniera entusiasta, mi dici due parole sulla storia?
È la storia più lineare che abbia scritto finora. Di solito cerco la frantumazione, gli spostamenti, disegnando percorsi più mentali che cronologici. In questo caso volevo raccontare qualcosa di molto preciso, strettamente legato al nostro tempo in relazione al passato e a un possibile futuro, e la linearità mi è sembrata la scelta migliore. Ma è anche il lavoro in cui, per la prima volta, ho immaginato una realtà diversa dalla nostra. Quando il contesto in cui siamo è raccontato fin troppo, e spesso male, la scrittura può mostrarlo forse meglio allontanandosene. Al momento questo mi interessa particolarmente. Anche il romanzo che sto scrivendo viaggia nella stessa direzione.

Pensando all’editoria di adesso, guardando da spettatore esterno, mi pare di non capirci molto, da dentro com’è? Cosa cavolo stanno combinando?
Nell’ultimo anno, in alcune interviste e interventi, ho cercato più volte di spiegare quello che sta succedendo dal punto di vista tecnico: modifiche nocive al sistema distributivo e della vendita, nascita di un monopolio di tipo aziendale, strategie di marketing, faziosità di critica letteraria e informazione. Come sai, è un discorso complicato e difficile da sintetizzare, ma in effetti è anche un po’ limitativo, perché a forza di parlare di questioni specifiche, come la visibilità dei libri e il sistema distributivo, rischiamo di perdere il quadro generale. Anzi, gli stessi libri sono solo un dettaglio, per quanto importantissimo, di un contesto culturale gestito male, dove la qualità e la passione sono considerati interessi di nicchia, questioni di secondo piano. Musica, cinema, teatro: in Italia c’è una seria crisi di contenuti, non solo economica. Mancano le competenze nella scelta, perché spesso a decidere sono le persone sbagliate. Il guaio è che ciò che racconta il telefilm Boris, per intenderci, a proposito della tivù, sta succedendo anche all’editoria. E paragono il libro all’intrattenimento televisivo proprio per non dare l’impressione di voler difendere soltanto la letteratura alta o quella che capiscono in pochi. Lasciamo perdere il capolavoro e il mito del genio incompreso: questo Paese è pieno di professionisti sconosciuti che saprebbero fare musica, film e spettacoli molto meglio di quelli che si vedono di più in giro. E lo stesso vale per la scrittura.

Che musica ascolti? Qual è per te “L’album”?
Non ce l’ho, l’album. Sono uno che va a momenti. Negli anni ho consumato dischi di De Andrè come dei Nirvana, dei C.S.I. come dei Depeche Mode, dei Radiohead come di Piero Ciampi. E fai conto che ancora adesso ogni tanto riascolto i Bluvertigo, per dire.

Se guardo al vostro catalogo trovo alcuni degli scrittori italiani più interessanti, penso (tra gli altri) a Merico, Saporito, Liberale, Domenichini, Ronco, Palazzolo, Naspini e il nuovissimo romanzo di Luigi Romolo Carrino, perché sono così difficili da promuovere e, spesso, da trovare in libreria (manco fossero libri di poesia)?
Anche questa è una risposta difficile da dare in breve. Partiamo dalle librerie, cioè da questioni più oggettive. C’è un lato tecnico che andrebbe spiegato meglio di come possa fare io qui, almeno a chi non conosce il sistema distributivo. Diciamo solo che i soggetti coinvolti (ovvero i distributori, i promotori e i librai), fino a pochi anni fa autonomi, sono oggi per lo più di proprietà dei pochissimi grandi editori italiani. Le conseguenze sono intuibili: è come se pian piano tutti i negozi di alimentari e supermercati fossero sostituiti da grandi ipermercati della Barilla, mettiamo, e voi foste produttori di un’altra marca di pasta. A questo si aggiunge il fenomeno stesso delle grandi librerie di catena, dove al posto di librai informati e competenti, a volte ci sono ragazzi sottopagati che parlano come commessi di una boutique («Quest’anno si porta molto il romanzo erotico»). Quanto alla promozione, il discorso è un altro ancora, e anche questo difficile da riassumere. Ma di sicuro posso dire che molti autori meritevoli vengono ignorati dalla critica e dai premi letterari per ragioni stupide come il fatto di non avere amici influenti. D’altra parte, a sfogliare certe pagine culturali, a volte sembra di leggere quella specie di rivista di Trenitalia che parla sempre benissimo dei treni. Non so se mi spiego.

La prossima volta o io a Bologna o tu a Milano ci si becca a cena, perché tutto ‘sto on-line alla lunga stanca, ok?
Contaci, e con menù rigorosamente campano, eh, mica cotolette e tortellini.


(c) Gianni Montieri

15/11/12

Intervista a cura di Giovanni Turi




Alcuni scrittori non perdono occasione per ringraziare il proprio editor, altri per lanciargli critiche più o meno velate; taluni lo considerano un coautore, altri poco più che un redattore o un semplice lettore professionista… Chi è per te l’editor e qual è il suo ruolo?
Lo racconta bene il tuo blog: molti non sembrano sapere che l’editor è un editor, cioè né un coautore, né un impiegato negligente, né un dispensatore di favori. Il suo ruolo è il più importante dopo quello dello scrittore e il suo lavoro deve sapersi adattare caso per caso. Personalmente, essendo anche un autore, io cerco di essere l’editor che vorrei per i miei testi: qualcuno che anzitutto li sappia apprezzare e rispettare.

Qual è stato il percorso che ti ha portato a svolgere questa professione?
Per alcuni anni ho frequentato corsi di editoria e collaborato occasionalmente (e abbastanza sterilmente) con case editrici e agenzie letterarie. Nel 2007 ho pubblicato il mio primo romanzo per Perdisa Pop e, da allora, Luigi Bernardi (fondatore e all’epoca direttore del marchio) ha iniziato a coinvolgermi nel lavoro per la casa editrice, prima come lettore e redattore, poi come editor e curatore di collana. Nel 2011 la direzione di Perdisa Pop è passata a me.

26/06/12

Per esempio







Prenderò poco spazio per raccontarvi un episodio appena accaduto, che trovo molto interessante per chi non avesse ancora ben chiara l’attuale situazione dell’editoria italiana.
Brevissima premessa: non molto tempo fa, una persona che lavorava in una libreria di catena mi ha confidato che, a volte, di fronte al cliente in cerca di alcuni libri non presenti in negozio, i commessi avevano l’ordine di rispondere che quei libri erano irreperibili, ovvero che non era possibile nemmeno ordinarli, sebbene in realtà lo fossero.
Il motivo? Chiamiamola politica aziendale: pare infatti che la frase «Non lo abbiamo, ma possiamo ordinarlo» spinga molti lettori a provare in altre librerie, piuttosto che fare un ordine in quella in cui si trovano. Dicendo invece che il libro non è rintracciabile da nessuna parte, il lettore si rassegna e magari compra un altro libro.

Pochi giorni fa, una persona cerca Madreferro di Laura Liberale in una libreria di catena della sua città. Non trovandolo esposto, chiede alla commessa, la quale le comunica che il libro non è reperibile.
Ieri, informato della cosa, prendo il telefono.
Senza dire chi sono, chiedo alla libraia in questione se sia possibile acquistare questo titolo da loro. La donna mi dice di no, e che non posso nemmeno ordinarlo.
Chiedo come mai.
Mi risponde che loro non trattano con il distributore di questa casa editrice.
Ribatto: «Mi sta dicendo che non avete nessun libro distribuito da Pde? Quindi non avete minimum fax?»
Certo che hanno minimum fax, mi risponde. Poi mi chiede, testualmente: «Lei non è un cliente, vero?»
Le dico chi sono.
La tizia farfuglia qualcosa, mi dice: «Ah, certo, Perdisa, certo che abbiamo i vostri libri… In effetti vedo adesso il titolo in vendita su internet (sic!) e dovremmo averlo anche noi, sì. Senta, mi lasci fare un controllo e la richiamo, va bene?»
Due ore dopo mi richiama.
Dice che il libro è reperibile eccome. Dice che non sa cosa sia successo. Dice che entro un paio di giorni lo avranno.

L’attuale situazione dell’editoria italiana è anche questa. Così gli scrittori perdono lettori, così i lettori non trovano quello che cercano. Inutile dire che la reperibilità dei libri pubblicati da editori indipendenti non dipende né dalla loro qualità, né dal lavoro della casa editrice. Siamo schiacciati da strategie come queste, meschine e colpevoli.
Credo che spargere la voce sia utile: sappiate e dite in giro che i libri Perdisa Pop sono distribuiti in tutte le librerie italiane (a eccezione, naturalmente, di alcune piccole indipendenti che vendono solo certi titoli con politiche particolari).
Se vi dicono che non li hanno in negozio, ordinateli. Se vi dicono che non potete nemmeno ordinarli, mentono.

14/06/12

Editoria digitale, ePop, Tanatosi | Un'intervista di Massimo Maugeri ad Antonio Paolacci




[da Letteratitudine News - 13 giugno 2012]

- Caro Antonio, parlaci degli obiettivi di ePop, la nuova collana di Perdisa Pop…
La collana ha tre caratteristiche precise: la brevità dei testi, il prezzo molto basso e il formato esclusivamente digitale. Visto quello che è successo negli ultimi anni, non potevamo non pensare agli ebook: il libro italiano è sempre più penalizzato da un sistema di distribuzione, promozione e vendita ormai gestito dai grandi gruppi editoriali. È sufficiente pensare che hanno comprato tutto (distributori, librerie), per non dire che i loro sono gli unici libri, di fatto, di cui parla la tivù, presentandoli alla maggioranza della gente come il meglio che si possa trovare in libreria. Per un editore che propone cose diverse dalle più commerciali è molto dura far notare un proprio libro: tutto il sistema tradizionale è in sostanza nelle mani di persone che si occupano di pubblicità e marketing, persone che ignorano il valore culturale del libro e lo trattano come un prodotto da vendere, come scarpe alla moda o saponette. Ma i lettori che oggi deridono le classifiche non mancano: sono quelli delusi, stanchi di spendere quindici o venti euro per romanzi mediocri o perfino stupidi. Non c’è da biasimarli, se non si fidano più, se preferiscono non seguire l’editoria italiana in questo livellamento verso il basso. È a loro che si rivolge la collana, offrendo libri molto economici e facilmente reperibili: gli ebook ci consentono di proporre ai lettori delle alternative immediatamente disponibili e al prezzo di un periodico da edicola. Così il singolo lettore può “assaggiare” cose diverse, conoscere scrittori italiani che potrebbero piacergli molto, anche più di quelli che Fazio promuove in tivù, per intenderci.

- Cosa pensi del rapporto tra e-book e pirateria?
Ho l’impressione che se ne parli un po’ per mancanza di argomenti, perché si pensa a quanto è già successo alla musica o al cinema. Ma tra sistemi di protezione dei file e scarsa qualità dei testi piratati, il fenomeno non sembra preoccupante. In ogni caso, al momento l’editoria ha problemi molto più seri da affrontare, legati soprattutto a quanto dicevo prima.

- Ammesso che esista un pregiudizio sulla pubblicazione e sulla lettura di libri elettronici, secondo te – tale pregiudizio – è più presente tra gli scrittori o tra i lettori?
Il pregiudizio è diffuso ovunque. Siamo un po’ tutti cresciuti con l’idea che il libro tradizionale sia in qualche modo sacro e venerabile come oggetto in sé, per cui il digitale ci piace poco. Se però pensiamo solo alla scrittura e alla lettura, questa ostilità dimostra quanto si sia legati alla forma più che alla sostanza. C’è chi dice che il digitale produrrebbe un impoverimento culturale, impedirebbe l’approfondimento, ridurrebbe le possibilità di lettura. È evidente che chi suppone questo non conosce l’oggetto di cui parla. La tecnologia consente esattamente l’opposto: maggiore comodità di lettura, maggiori approfondimenti, possibilità di leggere e portarsi dietro più libri contemporaneamente. Dobbiamo conoscere la realtà, perché potrebbe perfino piacerci: per esempio i dati statistici parlano di un forte aumento delle ore di lettura tra le persone che acquistano gli ebook. Chiaro che i problemi veri sono altrove: con una effettiva rivoluzione di questo genere, per esempio, il sistema di realizzazione e vendita dei libri cambia radicalmente, rendendo inutile il lavoro di molte persone. Questo è vero, però non si può evitare la realtà mentendo alla gente o battendo i piedi: bisogna prendere atto dei cambiamenti, sapere di cosa si parla, e ragionare di conseguenza.

- Non temi che una collana che accolga solo e-book (la cui pubblicazione non comporta rischi di stampa e distribuzione), data l’ancora scarsa diffusione dei libri elettronici, possa essere considerata come una “collana di serie B”?
Non lo temo, caro Massimo: ne sono certo. Ma ne ero certo fin da quando ho avuto l’idea. Per questo ho voluto che il primo titolo fosse mio: per mostrare che credo nel progetto anche come autore. Gli ePop sono comunque libri Perdisa Pop, cioè hanno alle spalle la stessa linea editoriale dei nostri cartacei, con la particolarità di poter arrivare ai lettori in modo molto più semplice. Poi è vero che i rischi per l’editore sono ridotti, ma relativamente, perché in realtà il sistema è analogo a quello dei cartacei: esistono anche qui un distributore e una libreria (online) che trattengono una percentuale sui libri venduti, e anche qui esistono costi di realizzazione che – quando se ne cura la qualità – sono maggiori di quanto si creda. Ed esiste anche un’IVA sugli ebook molto più alta che sui cartacei. A conti fatti, chi risparmia davvero è il lettore: le spese minori sono il motivo per cui i nostri ebook possono costare così poco a chi li acquista, ma non incrementano i guadagni dell’editore, che a parità di copie vendute incassa la stessa cifra. Insomma, so che pensare male delle case editrici è sempre facile, però esistono editori ed editori. E, per quelli che cercano di tenere alto lo standard delle proprie pubblicazioni, lo scopo non è trovare modi mefistofelici per arricchirsi, l’obiettivo è piuttosto sopravvivere, e sopravvivendo far esistere libri che sarebbe un peccato perdere.

- Volendo tracciare un bilancio sulla casa editrice, da quando ne hai assunto la direzione editoriale a oggi, tenuto conto del periodo di crisi generale, che valutazione faresti?
Sarei più che soddisfatto. Il condizionale è dovuto appunto al momento difficile, vale a dire a una difficoltà economica generale che si unisce ai problemi puramente editoriali che sappiamo. Per l’editoria italiana non è mai stata così dura, e tutto può accadere. Ma se, come dicevo, la sfida di oggi è riuscire a sopravvivere, Perdisa Pop la sta vincendo più che dignitosamente: senza attuare mosse commerciali, senza modificare la propria linea e le proprie idee, senza raccattare soldi con pubblicazioni a pagamento o operazioni bieche. La stima per Perdisa Pop è cresciuta di anno in anno, e oggi qualcuno lo definisce un marchio “già cult”: chi lo conosce sa cosa offre, sa che abbiamo lanciato autori e idee di scrittura, e continua a seguirci. Abbiamo anche ridotto drasticamente le uscite annuali, il che avrebbe potuto penalizzarci facendoci perdere visibilità, invece il nostro pubblico è addirittura in aumento.

- Parliamo del tuo nuovo racconto, che apre la collana ePop. Il titolo è Tanatosi. Come nasce? Da quale idea o fonte di ispirazione?
È un lavoro a cui tengo molto. La brevità e il tipo di pubblicazione hanno indotto alcuni a credere il contrario: al mio posto, altri avrebbero dato un lavoro minore a questa collana così sperimentale, per cui era forse lecito immaginare che potessi farlo anche io. Invece lo considero uno dei miei testi migliori. È nato da riflessioni e letture diverse che mi hanno accompagnato per anni, e mi dà la sensazione di aver centrato il punto, di aver detto esattamente ciò che volevo dire. In qualche modo racconta i nostri dubbi attuali e ha il sapore di un apologo: la storia meno realistica che io abbia scritto, eppure parla di noi, del nostro tempo, del senso che diamo ai gesti quotidiani in un momento storico di confusione e incertezze profonde.

- In questo racconto tratti anche del rapporto padre-figlio. Se ne parla tantissimo nella narrativa di questi ultimi anni. Molto più che in passato. Per quale ragione, a tuo avviso?
Il fatto è che viviamo in un’epoca bizzarra. Il mondo è cambiato tanto confusamente e velocemente che facciamo fatica anche ad accorgercene. La situazione economica, l’incidenza della cultura, il metodo dell’informazione: è tutto diverso. Lavoro, trasporti, politica, comunicazione, vita quotidiana: i nostri genitori pensavano e progettavano il futuro secondo schemi mentali che per noi sono ormai obsoleti. Il che ci fa paura e ci spiazza. E, come in ogni epoca, la narrativa ha i suoi automatismi: la più banale si limita a creare semplici meccanismi di immedesimazione (quindi oggi racconta scontri generazionali, problemi legati alle idee diverse di padri e figli, commoventi riconciliazioni con i genitori). Poi esiste la letteratura che non parla solo ai contemporanei, quella che durerà, quella per la quale un rapporto tra padri e figli diventa simbolico, allegorico, molto più potente. E allora ecco che McCarthy scrive La strada, per esempio, dove non a caso i protagonisti sono un padre e un figlio. Una storia come quella può mettere in scena rappresentazioni del passato e immagini del futuro con un respiro spaventosamente ampio, può farci riflettere su chi siamo stati e su cosa siamo diventati, su quale sia la nostra vera eredità culturale e, soprattutto, su quanto ci interessi conservarla.

16/02/12

be-pop

Il post che ha inaugurato be-pop, il blog di Perdisa Pop - dove cerco di dare un'idea dei miei progetti editoriali, alla luce di alcuni dati sulla situazione italiana all'inizio del 2012.



Un paio di mesi fa ero a tavola con un giornalista di “Libero”. Si trattava di una cena con diverse persone, in chiusura di una manifestazione letteraria che ospitava scrittori ed editori.
Assediato dalle accuse che potete immaginare, il giornalista aveva una strana linea difensiva: si limitava a informarci (sic) che il suo giornale è un ottimo giornale.
Io ho continuato ad ascoltarlo con la distrazione adeguata – fortunatamente il cibo era buonissimo – almeno fino a quando ha detto la frase: «Essere bravi giornalisti significa anzitutto saper vendere giornali».
Tralasciamo l’ovvia confusione tra giornalista e giornalaio e concentriamoci su qualcosa di più interessante.
A queste parole, i presenti hanno istantaneamente abbassato gli occhi per riflettere con mestizia. Erano scrittori, erano editori: sapevano cosa vuol dire non riuscire a vendere.

La mia grande premessa è che, da qualche anno, l’editoria italiana agisce in modo bizzarro. Potevo usare altri aggettivi, ma bizzarro mi sembra il più appropriato per il discorso che segue.
Siamo agli anni ’10 ed è ormai chiaro che, a un certo punto della storia occidentale, ha preso piede un Grande Equivoco: l’idea malsana che l’unità di misura del lavoro fatto bene fossero gli incassi («se il prodotto è buono si venderà»; «se si vende vuol dire che è buono»). Che si tratti di telefonini o libri, di biscottini o creme idratanti, i cartelli con la scritta Il più venduto ci hanno fatto credere per troppo tempo che più venduto volesse dire migliore.
L’idea che il popolo degli acquirenti sia composto in larga parte da capre è stata alla base del commercio per molti anni. E diciamolo: è stata vincente. Ha creato imperi economici, radunato greggi agli ingressi dei negozi che vendevano le cose più inutili e, da qualche tempo, è arrivata anche nelle case editrici, come per diritto di efficacia.
Riassumendo per chi in questi anni fosse stato distratto, diciamo solo che gli editori più potenti hanno in pratica comprato tutta la baracca (promotori, distributori e librerie) e, sfrattando gli indipendenti, sono riusciti a monopolizzare di prepotenza lo stesso panorama letterario.
La situazione è triste e la faccenda non è mai stata così seria, perché se da un lato editori e librerie indipendenti muoiono, dall’altro ciò che resta sono libri al limite della decenza, e a volte oltre il limite, essendo concepiti come prodotti per le suddette capre. Solo che, a quanto pare, fregare i lettori veri non è così semplice.

Nel 2011 sono stati calcolati settecentomila lettori abituali in meno rispetto all’anno precedente, un crollo importante. Verrebbe da pensare alla crisi economica, all’incidenza della tivù, al fatto che la gente compra meno in generale, ma il dato Istat non si riferisce al crollo delle vendite, parla di lettori abituali in fuga.
Un altro dato parla di quasi mezzo milione di e-reader apparsi sul mercato in pochi mesi. Se lasciamo perdere il solito sì-però-l’odore-della-carta e ipotizziamo per un attimo che i libri sia più bello leggerli che sniffarli, gli esperti dicono che il dato potrebbe – e sottolineano potrebbe – essere positivo, indicando un numero crescente di persone che sceglie le proprie letture non più in libreria ma sul web. Chi può dire, però, per quali testi verranno usati tanti e-reader?

Questo blog nasce lo stesso anno in cui Perdisa Pop decide di dimezzare i propri titoli annuali. L’editoria è in rapida e confusa trasformazione. La crisi economica non è facile da distinguere – nemmeno concettualmente – dalla strage dei piccoli operata dai grandi, e neppure dalla crisi culturale, che in prospettiva mi sembra quella più grave.
Circolano molti altri dati, e non è detto che siano attendibili, né è facile usarli per fare previsioni. Alcuni poi ci mancano, come quelli di Amazon, che intanto minaccia di essere uno dei principali concorrenti dei venditori tradizionali.
Ma se parliamo di cultura letteraria – come spero che faremo qui – credo che la battaglia non sia ancora persa. Il web ci promette da anni una diversificazione dei contenuti che forse stiamo già sfruttando più di quanto ci sembri.

Da parte nostra, in questo spazio cercheremo per quanto possibile di dare voce a molti autori e a belle idee, con articoli, approfondimenti e testi di vario genere. Lo faremo con calma, senza esagerare in quantità, con cura e credendo in ogni testo, che è poi lo spirito con cui facciamo gli editori.

21/06/11

Antonio Paolacci al timone di Perdisa Pop tra la buona scrittura e il futuro dell’editoria






- Partirei subito col chiederle cosa ne pensa dei nuovi supporti editoriali: mi riferisco ai lettori elettronici di ebook e agli ebook stessi? Avete intenzione di investire in tal senso?

Lo abbiamo già fatto. Siamo stati tra i primi in Italia. Molti titoli del nostro catalogo sono già disponibili anche in formato elettronico, altri ne arriveranno. Si possono acquistare sui principali siti che forniscono il servizio.

- Quali sono le sue idee, la sua linea editoriale?
Fin da quando è nato, il marchio Perdisa Pop propone storie forti, non consolatorie, non fasulle. Quello che comunque più ci interessa è la qualità della scrittura.

- Togliamoci subito la fatica: quale tipo di insegnamento le ha lasciato Luigi Bernardi?
Ho lavorato con lui per anni e non saprei sintetizzare in poche righe questa esperienza lunga e importante. Bernardi mi ha permesso di portare avanti le mie idee, anzitutto. Ha creduto nella mia scrittura. Mi ha insegnato molto con la sua. E continua a farlo.

- Cosa pensa delle community di lettori online, del modo di diffondere la cultura usando metodi diversi affiancati gli uni agli altri?
Internet è uno strumento indispensabile per gli editori come noi. Va anche detto che però non basta. La rete è una piazza enorme che può contenere di tutto. Si incontrano voci brillanti, ma anche superficialità, emozioni personali oppure mode che appena nate sono già noiose. Per non parlare dei gruppi di amici che si scambiano favori o degli scrittori che si elogiano l’unl’altro per pura cortesia. Il problema principale, per chi cerca consigli di lettura, è che oggi in Italia scarseggia la vera critica letteraria. Parlo di una conoscenza, una competenza libera e in grado di riconoscere la qualità senza pregiudizi.

- Vorremmo sapere come intende il rapporto con gli autori e dato il grosso problema dell’imporsi nel vasto mondo editoriale, come pensa di far sì che Perdisa Pop raggiunga il maggior numero di lettori?
Non si tratta di raggiungere il maggior numero possibile di lettori, ma di raggiungere i più svegli. Per vendere a chiunque, anche a chi non sarebbe interessato ai libri, gli editori le provano tutte: copertine assurde, storie per sempliciotti, prodotti seriali, campagne di vario genere, nuove correnti improvvisate; operazioni rivolte a un consumatore da incantare. Raggiungere i lettori in un contesto simile è la vera sfida, ma se il marchio Perdisa Pop si è fatto apprezzare è anche perché non ha mai accettato questa logica. Il mio lavoro non è vendere a chiunque, ma offrire buoni libri a chi cerca buoni libri.

- Cosa pensa che distingua Perdisa Pop da ogni altro editore? Qual è il suo atto di libertà rispetto al contesto editoriale attuale?
Siccome i lettori sono davvero pochi, rispetto agli spettatori televisivi, l’editoria italiana sembra aver deciso di trasformarsi in una forma di intrattenimento. Certe volte, quando giro in libreria, mi sembra di fare zapping in tivù. Si direbbe che al momento gli editori siano iprimi a non credere nella buona scrittura. Il che è tragico, oltre che paradossale. In un sistema che punta sui libri scritti da comici, calciatori, o in generale sulle facce note grazie al piccolo schermo, la prima cosa da fare è proporre letteratura.

11/11/10

Video: Antonio Paolacci presenta Salto d'ottava alla Lovat di Padova

Salto d'ottava alla Libreria Lovat di Padova insieme a Giacomo Brunoro.
Presentazione organizzata dal movimento Sugarpulp.


Video: Sugarpulp presenta: Salto d'ottava, di Antonio Paolacci

Matteo Righetto e Giacomo Brunoro di Sugarpulp discutono di Salto d'ottava, il romanzo di Antonio Paolacci edito da Perdisa Pop. Una rilassata e informale videorecensione registrata lungo l'A4...