18/12/12

Interviste credibili: Antonio Paolacci




[Gianni Montieri intervista Antonio Paolacci per Poetarum Silva]


Ciao Antonio, come ci si sente a ritrovarsi con un terremoto sotto il culo?
Più o meno come il personaggio di John Travolta nella scena di Pulp Fiction in cui esce dal gabinetto e c’è Bruce Willis. Ciao Gianni.

Bologna (la città in cui vivi) com’è in questi anni? Com’è cambiata? Cosa le è rimasto addosso di quel fascino che la rendeva (a seconda dei casi) “la dotta” “la viva” “la saggia” (questa me l’ha detta un amico anni fa)?
Ho idea che anche in questa intervista sembrerò uno che non vede l’ora di lamentarsi. Molto bene. La risposta è: assai poco. Di dotto e saggio a Bologna è rimasto un solido ricordo e poco più, però diciamo che a suo favore ha la scusa di essere in compagnia di tutta l’Italia.

Quando ti arriva sul tavolo un manoscritto qual è la prima cosa che fai o che pensi, prima di cominciare a leggerlo?
Prima lo giudico dall’aspetto. Per quanto possa sembrare ingiusto, non lo è: la mediocrità di certi lavori si capisce da come sono presentati. C’è chi perde tempo in copertine sceme, disegni da scuola elementare, impaginazioni estrose, ecc. Poi ci sono le lettere di presentazione dalle quali si capisce che gli autori sono spesso vittime di equivoci e luoghi comuni sulla scrittura e l’editoria. In ogni caso, quando poi mi metto a leggere, quello che di solito penso è la nota frase: «Il cucchiaio non esiste».

Dal 2011 sei il Direttore di Perdisa Pop, quanto è divertente e quanto è difficile?
Difficile è fare questo mestiere per chiunque, negli ultimi anni, perché occorre combattere con soggetti esterni alle case editrici, persone che decidono troppo e con criteri discutibili. Parlo di chi ha il potere di dare visibilità ai libri, dai giornali ai premi letterari, dai distributori ai librai, i quali dettano spesso legge – o ci provano – perfino nei nostri piani editoriali, consigliando per esempio un certo cerchiobottismo, dal momento che trovano saggio accontentare un po’ tutti e non offendere nessuno. E io sono pessimo, nel cerchiobottismo. Però posso dire che ho imparato ad affrontare diverse difficoltà a modo mio, riuscendo a portare avanti quello che credo sia giusto senza accettare troppi compromessi. Ecco, di divertente c’è quest’ultima cosa, tra le altre che credo siano più intuibili.

Tutto quello che ti viene in mente se ti dico: David Foster Wallace.
Tutto? Per carità, facciamo che ti dico solo una cosa piccola e un po’ personale, altrimenti non riuscirò mai a finire questa intervista. Penso che il suo modo di intendere e vivere la scrittura fosse esemplare. Credo sia anche per questo che nel leggerlo si sentono il potere e il piacere della migliore letteratura, al di là di ogni faccenda teorica, stilistica o tematica. Non perdeva mai di vista il fatto che osservare e raccontare il mondo con attenzione, ma anche con la consapevolezza di quanto sia facile sbagliare, è più che la base di un mestiere, è il punto di partenza di tutte le nostre azioni, quindi è concretamente più importante di ogni altra cosa. Wallace è uno dei pochi, pochissimi, scrittori che nei momenti di sconforto riescono a ricordarmi perché ho scelto di scrivere. La mia ammirazione non c’entra con il fanatismo e tanto meno con l’emulazione. C’entra semmai con la gratitudine.

Una cosa che ti viene in mente se ti dico: Luigi Bernardi.
Senza dubbio il fatto che da ragazzino io ho passato una lunga, bellissima giornata con Michel Platini, e lui no. (Questa la pagherò con un sonoro vaffanculo.)

Ma davvero a Bologna state sempre a mangiare?
Guarda. A Bologna non sanno fare i dolci, per non parlare del pane. Bisogna che questo si sappia.

Parliamo di e-book, il tuo ultimo libro “Tanatosi” è uscito soltanto in formato elettronico, seguito da altri tre titoli (di Domenichini, Naspini e Bernardi), è molto più di una scelta di campo.
È insieme un progetto, un esperimento e una provocazione. Proporre certi autori italiani ai lettori italiani come si è sempre fatto, oggi sembra una specie di impresa, ostacolata da distributori, giornali, librerie… In un momento come questo può valere la pena fermarsi un attimo e fare un passo indietro per osservare il panorama in prospettiva. E magari porsi delle domande basilari, per esempio su cosa siano per noi la lettura, la scrittura, la letteratura, su quanto pensiamo che possa durare nel tempo il singolo libro, su cosa ci aspettiamo che ci dia in cambio dei soldi o del lavoro che ci chiede. Che peso gli diamo in generale, insomma. E in questo “noi” includo tutti: lettori, scrittori, editori, critici, distributori e librai. Gli ebook sono ancora una specie di mostro, nell’immaginario di molti. Ma ideare questa collana e farla partire con un titolo mio nel 2012 è stata una di quelle idee che vengono in un lampo e quadrano da subito. Per intenderci: credo che Tanatosi sia uno dei miei scritti migliori, se non il migliore in assoluto, e se fino a oggi è anche quello che ha venduto meno, non mi importa. Sapevo che sarebbe andata così. Il punto è che è là, disponibile in pochi minuti e a pochi euro, per chiunque abbia accesso a internet e voglia di leggerlo.

Ti ho conosciuto come scrittore, qualche anno fa, guardando il catalogo di Perdisa Pop, scelsi il tuo libro “Salto d’ottava” perché mi piaceva il titolo (ebbene commetto ancora simili peccati, perché tu no?) poi mi è piaciuto pure il libro, lo stile e quel misto di realismo e visionarietà. Mi piacque sia la storia che lo stile, non ho ancora letto “Tanatosi” (perché ho rimandato l’acquisto dell’E-reader, vabbè a Natale arriva) ma tutti me ne parlano in maniera entusiasta, mi dici due parole sulla storia?
È la storia più lineare che abbia scritto finora. Di solito cerco la frantumazione, gli spostamenti, disegnando percorsi più mentali che cronologici. In questo caso volevo raccontare qualcosa di molto preciso, strettamente legato al nostro tempo in relazione al passato e a un possibile futuro, e la linearità mi è sembrata la scelta migliore. Ma è anche il lavoro in cui, per la prima volta, ho immaginato una realtà diversa dalla nostra. Quando il contesto in cui siamo è raccontato fin troppo, e spesso male, la scrittura può mostrarlo forse meglio allontanandosene. Al momento questo mi interessa particolarmente. Anche il romanzo che sto scrivendo viaggia nella stessa direzione.

Pensando all’editoria di adesso, guardando da spettatore esterno, mi pare di non capirci molto, da dentro com’è? Cosa cavolo stanno combinando?
Nell’ultimo anno, in alcune interviste e interventi, ho cercato più volte di spiegare quello che sta succedendo dal punto di vista tecnico: modifiche nocive al sistema distributivo e della vendita, nascita di un monopolio di tipo aziendale, strategie di marketing, faziosità di critica letteraria e informazione. Come sai, è un discorso complicato e difficile da sintetizzare, ma in effetti è anche un po’ limitativo, perché a forza di parlare di questioni specifiche, come la visibilità dei libri e il sistema distributivo, rischiamo di perdere il quadro generale. Anzi, gli stessi libri sono solo un dettaglio, per quanto importantissimo, di un contesto culturale gestito male, dove la qualità e la passione sono considerati interessi di nicchia, questioni di secondo piano. Musica, cinema, teatro: in Italia c’è una seria crisi di contenuti, non solo economica. Mancano le competenze nella scelta, perché spesso a decidere sono le persone sbagliate. Il guaio è che ciò che racconta il telefilm Boris, per intenderci, a proposito della tivù, sta succedendo anche all’editoria. E paragono il libro all’intrattenimento televisivo proprio per non dare l’impressione di voler difendere soltanto la letteratura alta o quella che capiscono in pochi. Lasciamo perdere il capolavoro e il mito del genio incompreso: questo Paese è pieno di professionisti sconosciuti che saprebbero fare musica, film e spettacoli molto meglio di quelli che si vedono di più in giro. E lo stesso vale per la scrittura.

Che musica ascolti? Qual è per te “L’album”?
Non ce l’ho, l’album. Sono uno che va a momenti. Negli anni ho consumato dischi di De Andrè come dei Nirvana, dei C.S.I. come dei Depeche Mode, dei Radiohead come di Piero Ciampi. E fai conto che ancora adesso ogni tanto riascolto i Bluvertigo, per dire.

Se guardo al vostro catalogo trovo alcuni degli scrittori italiani più interessanti, penso (tra gli altri) a Merico, Saporito, Liberale, Domenichini, Ronco, Palazzolo, Naspini e il nuovissimo romanzo di Luigi Romolo Carrino, perché sono così difficili da promuovere e, spesso, da trovare in libreria (manco fossero libri di poesia)?
Anche questa è una risposta difficile da dare in breve. Partiamo dalle librerie, cioè da questioni più oggettive. C’è un lato tecnico che andrebbe spiegato meglio di come possa fare io qui, almeno a chi non conosce il sistema distributivo. Diciamo solo che i soggetti coinvolti (ovvero i distributori, i promotori e i librai), fino a pochi anni fa autonomi, sono oggi per lo più di proprietà dei pochissimi grandi editori italiani. Le conseguenze sono intuibili: è come se pian piano tutti i negozi di alimentari e supermercati fossero sostituiti da grandi ipermercati della Barilla, mettiamo, e voi foste produttori di un’altra marca di pasta. A questo si aggiunge il fenomeno stesso delle grandi librerie di catena, dove al posto di librai informati e competenti, a volte ci sono ragazzi sottopagati che parlano come commessi di una boutique («Quest’anno si porta molto il romanzo erotico»). Quanto alla promozione, il discorso è un altro ancora, e anche questo difficile da riassumere. Ma di sicuro posso dire che molti autori meritevoli vengono ignorati dalla critica e dai premi letterari per ragioni stupide come il fatto di non avere amici influenti. D’altra parte, a sfogliare certe pagine culturali, a volte sembra di leggere quella specie di rivista di Trenitalia che parla sempre benissimo dei treni. Non so se mi spiego.

La prossima volta o io a Bologna o tu a Milano ci si becca a cena, perché tutto ‘sto on-line alla lunga stanca, ok?
Contaci, e con menù rigorosamente campano, eh, mica cotolette e tortellini.


(c) Gianni Montieri