Tre anni fa e ne andava Luigi Bernardi, lo ricordiamo con alcune memorie scritte a sei mani e senza regole (di Gianni Montieri, Rosario Palazzolo e mie).
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16/10/16
Bernarditudine
31/08/15
Il mio primo romanzo
Il mio primo romanzo è uscito nel 2007. Si intitola Flemma e sta per uscire di nuovo, ripubblicato da Morellini Editore.
L’avevo scritto tra il 2005 e il 2006 e ci avevo impiegato più di anno, non solo perché era per me un lavoro ambizioso, ma anche perché il lavoro (ambizioso) consisteva in buona parte nella definizione di me stesso come autore, nella ricerca e nel rispetto della mia voce, nella delimitazione di una mia scrittura.
Il romanzo aspirava a un’estetica sociale e letteraria insieme: guardando da una certa distanza i generi tradizionali legati al tema del crimine, della colpa e dell’innocenza, in Flemma ho inseguito il respiro di una generazione che mi pareva muoversi come un adulto divenuto improvvisamente cieco e che non fosse in grado tuttavia di ammetterlo. Si era a metà degli anni Zero, mentre scrivevo, e la situazione scandalosa di dominio da parte della mediocrità non aveva ancora colpito le mie fondamenta: l’operazione aveva senso. Mi pareva che le menti migliori cercassero di venire a capo dei fenomeni culturali e sociali che tormentavano anche me. E lavorai in questa direzione, come facevano loro. Mi dedicai quindi alla disgregazione delle disgregazioni, costruendo un romanzo che Valter Binaghi avrebbe poi definito “una scomposizione cubista della scena del crimine”. Non guardavo alle forme consolidate della narrativa italiana: guardavo oltreoceano, anche convinto del fatto che la mia generazione avesse maggiore dipendenza dalla cultura americana che da quella europea, essendo noi cresciuti più davanti a uno schermo che per strada.
A stesura terminata, lo inviai a una persona soltanto. Lo inviai solo a Luigi Bernardi, che all’epoca era stato il mio insegnante in un paio di corsi di scrittura. Passò un mese, poi due, poi tre, poi Luigi mi mandò un SMS, nel quale diceva: Sei pronto all’esordio. Sei mesi dopo Flemma era in libreria e io iniziavo a diventare l’uomo che sono oggi. Di lì a poco avrei iniziato a lavorare con Luigi ai libri Perdisa Pop, nel giro di qualche anno sarei diventato editor e direttore editoriale.
Intorno al 2008, Luigi mi disse che Flemma aveva diritto a una seconda vita almeno. Mi disse che avrei dovuto prima o poi fare qualcosa per farlo esistere in un nuovo contesto editoriale. Così ho fatto, appena mi è stato possibile, cioè nel 2015, quando scadeva il contratto della sua prima edizione.
Ed eccoci qui: molte cose sono cambiate in me e intorno a me. Il lavoro editoriale mi ha insegnato ciò che sempre insegna l’esperienza, ovvero il disincanto. Ed è forse inutile dirvi che rileggere Flemma oggi vuol dire per me leggere un romanzo che non riscriverei più, non a quel modo. Ma è giusto così: l’autore di quel libro era un tizio di poco più di trent’anni che non sono più io: un autore con un’altra voce e altre idee sulla propria scrittura, ma un autore che aveva cose da dire e che mi sembra ancora capace di dirle in quelle pagine.
Su questo mi sono confrontato con il nuovo editore, come era giusto. La domanda che ci ponevamo riguardava il grado di rispetto che dovevo a quel testo. Da parte mia sapevo di doverne rispettare l’indole, perché il suo bello è anche nascosto nella sua attuale distanza da me. Era un romanzo autentico, molto sentito, carico di partecipazione.
Alla fine ho deciso di fare una sola modifica importante. Ho eliminato in particolare uno dei personaggi, il che non ha quasi cambiato il libro, e per niente le intenzioni che lo animavano, ma ha reso possibile la rimozione di una dose eccessiva di informazioni, tipica dell’esordiente.
La nuova versione è dedicata alla memoria di Luigi Bernardi e Valter Binaghi.
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26/05/14
Particolari in chiaro
Ecco il testo (scritto per l'occasione) che ho letto durante l'incontro Un giorno vi racconterò. Ricordo di Luigi Bernardi.
Luigi Bernardi era un bastardo. Ve lo dico, ma tanto lo sapete anche voi. Ti faceva incazzare, brontolava di continuo, ti metteva in difficoltà. E poi odiava essere chiamato maestro ma ogni tanto faceva proprio come certi maestri zen, avete presente: ti tirava una randellata senza nessun motivo apparente. Tu eri lì, tranquillo a dire o fare qualcosa di normalissimo, e lui bam!, ti randellava. Era un bastardo, Luigi Bernardi, ed era facile dargli del bastardo se non riuscivi a capire che la randellata serviva a svegliarti, a farti uscire dai tuoi comodi percorsi mentali.
Immaginate la scena seguente. Siamo a Maniago, una sera di non so più che anno, per il premio Lama e trama. Alla fine delle premiazioni c’è questa cena con tutti i partecipanti. Gente di ogni età e di ogni parte d’Italia che ha scritto racconti pieni di squartamenti a mezzo coltelli da cucina. C’è questa tavolata con sette o otto persone sconosciute. Uno dei ragazzi, magro, ventenne, speranzoso, per farsi notare da Luigi inizia a parlare male di Faletti. (Fabio Volo non c’era ancora: erano gli anni in cui si parlava male di Giorgio Faletti).
E insomma: «Il successo di Faletti fa venire il voltastomaco», dice il ragazzo, e gli altri aspiranti scrittori seduti con noi gli danno ragione: «Faletti non sa scrivere», «Mi chiedo perché la gente compra i libri di Faletti». Eccetera.
Conoscono Luigi Bernardi come un burbero incazzoso, un intellettuale che dice le cose come stanno, per cui credo che tutti si aspettino di sentirlo d’accordo, pronto a tuonare contro Faletti, e chi lo legge, e chi lo pubblica. Ma Luigi zitto, non reagisce. Mangia. Inespressivo. Allora il ragazzo non resiste e lo chiama in causa: «Luigi», gli fa, «non sei d’accordo?».
Il Bernardi alza la testa dal piatto, fa un respiro e dice, serissimo: «Guarda. Non dovrei dirlo, ma la verità è che i libri di Faletti li ha scritti tutti Paolacci».
Per fortuna io riesco a trattenere la risata. È solo un attimo. Fossi scoppiato a ridere avrei rovinato la scena. Perché la cosa interessante di questa storia è che a quel punto è calato il gelo. C’erano sette o otto persone a quella tavola, e tutti negli ultimi dieci minuti avevano parlato male dei libri di Faletti, e tutti a quel punto hanno creduto per un attimo che il vero autore di quei libri fossi io, ovvero il giovane scrittore sconosciuto che collaborava con Bernardi.
In un colpo solo, Luigi aveva infilato tre o quattro randellate a ognuno di loro, e senza nemmeno essere in reale disaccordo con quanto dicevano. Solo dopo, solo quando hanno capito che era uno scherzo, sono sicuro che i più svegli di loro hanno riflettuto bene e hanno recepito il messaggio. Che era questo: è meglio non dare mai niente per scontato, prima di emettere un giudizio è bene considerare quanto si sa in merito a ciò che si giudica, e cosa si sa delle persone a cui si sta parlando.
Gianni Montieri, che ringrazio, ha voluto che questa serata prendesse il titolo da un mio pezzo dello scorso aprile, in cui dicevo che Luigi usava spesso la frase «Un giorno vi racconterò…» appunto per spiazzare chi esprimeva opinioni facili su cose che non conosceva a fondo. Più esattamente, scrivevo che questo era il suo modo per far capire ai meno informati che l’editoria è molto diversa da ciò che credono sia: «Un giorno vi racconterò come lavorano davvero quelli di [una nota casa editrice]», diceva. Oppure: «Un giorno vi racconterò come la pensa davvero [uno scrittore famoso]». Poi questo giorno non veniva mai, non raccontava niente alle persone di cui non si fidava, ma riusciva comunque a insinuare dubbi, che è poi il primo dovere del vero narratore.
Se vado indietro con la memoria e provo a ricordare in che modo è iniziata la nostra collaborazione, mi tornano in mente le facce di molta gente. Persone che si chiedevano da dove cavolo spuntassi io, questo tizio che a un certo punto il Bernardi aveva iniziato a coinvolgere in varie cose che faceva.
Se domandaste a me il perché di questa sua scelta, vi risponderei che a un certo punto abbiamo capito che ci intendevamo. Niente di più, ma soprattutto niente di meno: è una cosa rarissima e preziosa, nell’ambiente editoriale, trovare qualcuno con cui ti intendi davvero. So che molti di voi qui presenti stasera sanno di cosa sto parlando perché con Luigi hanno provato la stessa cosa: quella sensazione appagante di sentire che qualcuno è d’accordo con te su cose che la gran parte della gente non capisce nemmeno se gliele spieghi. Punti di vista sul mondo. Punti di vista sulla scrittura.
Però no, signori. Non siamo una ristretta cerchia di sfigati. Nossignore. Non siamo nemmeno una minoranza o quel mostro contemporaneo che alcuni chiamano Nicchia (scrittori di nicchia, libri di nicchia). Col cazzo. Per spiegarvi meglio, lasciatemi citare David Foster Wallace. Perché è anche di Wallace che stiamo parlando. E non del Wallace depresso, del Wallace suicida che ci ha lasciati orfani, ma di quello ottimista, quello che ci faceva sentire meno soli, quello che credeva nella letteratura e che usava la scrittura come occasione di incontro tra intelligenze.
Quando uscì in Italia l’intervista di Lipsky a Wallace, Luigi postò su Facebook un brano che io avevo sottolineato nella mia copia del libro tipo un’ora prima di vederlo sulla sua bacheca. (Ecco di cosa parliamo, quando parliamo di intesa.) Il brano era questo:
Gli scrittori hanno la licenza e anche la libertà di mettersi seduti da una parte… di mettersi seduti da una parte, stringere i pugni e rendersi mostruosamente consapevoli delle cose che in genere noi percepiamo solo fino a un certo punto. E se uno scrittore fa bene il suo lavoro, in pratica non fa altro che ricordare al lettore quanto è intelligente – il lettore, intendo. Cioè, gli apre gli occhi su qualcosa che il lettore sapeva già da prima. E la questione non è che lo scrittore ha maggiori capacità rispetto a una persona qualunque. È che lo scrittore è pronto, secondo me, a tagliarsi fuori, a isolarsi da certe cose e sviluppare… e pensare, tutto qui, pensare molto intensamente. Cosa che non tutti possono permettersi il lusso di fare.
Questo concetto, questo pensiero così semplicemente espresso da Wallace su quale sia in definitiva il lavoro dello scrittore, sfuggiva e sfugge alla gran parte delle persone in circolazione. I superficiali – e cioè quelli a cui stiamo concedendo sempre più spazio – sono quelli che vorrebbero essere scrittori senza mai mettersi in discussione, senza dover riflettere intensamente, per non correre il rischio di dover ammettere i propri errori di valutazione. Sono quelli che vorrebbero essere per genetica incapaci di sbagliare, in modo da poter giudicare tutto e tutti al volo, senza il bisogno di approfondire, di riflettere, di non dare mai niente per scontato.
Un paio di settimane fa, parlandone sul suo blog, Giampaolo Simi accennava al fatto che da qualche anno Luigi aveva smesso di essere ottimista. È vero. Verissimo: negli ultimi anni continuava a dire che in editoria tutto stava andando in malora. Lo raccontavo proprio in quel pezzo che ho scritto ad aprile. Eppure, come scriveva Simi, «vi posso assicurare che ha saputo essere una delle persone più ottimiste che abbia mai conosciuto». Ed è verissimo pure questo.
Anzi, in un certo senso io potrei garantirvi che Luigi Bernardi non è mai stato davvero pessimista. Lo era, e molto, per quanto riguarda lo stato e il futuro dell’editoria. Lo era su molte altre cose. Ma ricordo bene che tutte le volte in cui ero io a dire «È uno schifo, io smetto di scrivere, è tutto finito», quel bastardo rispondeva: «Non dire cazzate, Paolacci. Non è finito proprio niente».
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18/05/14
Ricordo di Luigi Bernardi
Il 23, 24 e 25 maggio Macao ospita la seconda edizione di InEdito, festival di editoria indipendente.
Uno degli incontri del festival, sabato 24, sarà dedicato a Luigi Bernardi.
Tra gli altri ospiti ci sarò anche io, con un mio breve scritto inedito.

Racconti su Luigi Bernardi
a cura di Ylenia d’Alessandro e Gianni Montieri
Attraverso la lettura delle sue parole e viaggiando dentro la memoria, racconteremo l’editore, lo scrittore, l’uomo.
Col sorriso, come sempre dovrebbe essere.
Con Paola Ronco, Antonio Paolacci, Alessandro Zannoni, Nicoletta Vallorani, Barbara Garlaschelli, Alessandra Terni, Nicoletta Bernardini, Giuseppe Merico, Anna Toscano, Rosario Palazzolo, Francesca Rimondi, Otto Gabos, Silvia Tebaldi, Gianni Montieri
Macao
Viale Molise, 68 – Milano
Sala cinema teatro – piano terra – ore 19.30
05/04/14
Un giorno vi racconterò cos’era davvero Perdisa Pop | Articolo
Non so quante volte ho sentito Luigi Bernardi iniziare una frase con «Un giorno vi racconterò».
Era il suo modo per far capire ai meno informati che l’editoria è molto diversa da ciò che credono sia: «Un giorno vi racconterò come lavorano davvero quelli di [una nota casa editrice]», diceva. Oppure: «Un giorno vi racconterò come la pensa davvero [uno scrittore famoso]».
Poi questo giorno non veniva mai, non raccontava niente alle persone di cui non si fidava, ma riusciva comunque a insinuare dubbi, che è poi il primo dovere del vero narratore.
Quando mi annunciò che avrebbe lasciato l’editoria, per me non fu una sorpresa. Da almeno un paio d’anni mi diceva che era stufo, che voleva scrivere e basta, che appena possibile lo avrebbe fatto. E io, per quanto temessi che alle sue dimissioni avrei perso il lavoro, non cercavo di dissuaderlo: ogni volta gli dicevo che l’avrei fatto anch’io, se avessi potuto; che se io ero stanco dopo pochi anni, figurarsi lui dopo più di trenta.
La notizia vera e propria me la diede alla fine del 2010. Della sua malattia non sapeva ancora nulla. Smetteva di fare l’editor perché non ne poteva più e voleva scrivere, scrivere e basta.
Mi invitò a pranzo a casa sua. Mangiammo crescentine e tigelle parlando delle cose che stavamo scrivendo, bevemmo chinotto, due caffè a testa, dopodiché mi disse che aveva deciso: smetteva, e voleva lasciare a me la direzione di Perdisa Pop.
Mi chiese se me la sentivo. Risposi di sì, naturalmente. A quel punto diventò serio e mi fece un discorso che non dimenticherò.
Disse che in oltre trent’anni non aveva mai visto l’editoria conciata tanto male. Un mestiere allo sfascio, diceva, dove per fare qualcosa di interessante ti tocca combattere in modo iniquo con un esercito di imbecilli che affossano l’intelligenza.
Aggiunse che anche Perdisa Pop non avrebbe retto ancora a lungo. Per cui dovevo pensarci bene: se accettavo di dirigere il marchio dovevo accollarmi il grosso rischio che la fine di Perdisa Pop – se fosse arrivata dopo pochi mesi dalle sue dimissioni – sarebbe stata attribuita a me.
Gli chiesi se secondo lui poteva durare almeno un anno. Mi rispose che, nelle condizioni in cui si era all’epoca, sarebbe stato difficile. Occorreva inventarsi qualcosa, e dovevo farlo io, se accettavo, dal momento che lui non ne poteva più.
Difatti, nel settembre del 2011, Alberto Perdisa mi comunicò che intendeva chiudere di lì a due mesi.
Ne erano passati appena cinque dalle dimissioni di Bernardi e il primo titolo con me in veste di direttore editoriale non era ancora nemmeno in libreria. Come editor ero bruciato.
O meglio, avevo due sole possibilità: diventare uno dei troppi aspiranti editor armati di curriculum sui pianerottoli di altri editori (con l’aggravante di aver diretto un marchio giusto il tempo della sua fine), oppure combattere con l’unica arma che avevo: altri due mesi prima della chiusura.
Ridisegnai piani editoriali e strategie aziendali, cercai autori precisi da pubblicare, reimpostai la comunicazione della casa editrice… Le mie mosse erano bollate come fallimentari da quasi tutti: si trattava di dichiarare apertamente la nostra politica e prendere la strada contraria a quella imboccata dall’editoria attuale, ridurre le uscite annuali, licenziare i promotori, arrivare ai lettori aggirando la distribuzione, e pubblicare con orgoglio testi non commerciali, scritti da italiani conosciuti solo a pochi e caratterizzati anzitutto da una buona scrittura. Il che significava niente menzogne ai lettori, niente mode del momento, nessun preconcetto sulla stupidità del pubblico, nessuna marchetta, nessun compromesso.
E all’inizio del 2012 c’erano già troppe buone notizie perché l’editore potesse mandarmi a casa: i nostri lettori aumentavano, arrivavano ottime recensioni e molti complimenti. In condizioni migliori avremmo potuto crescere notevolmente, ma, anche con i nostri scarsi mezzi e nelle difficoltà generali, un anno dopo eravamo una delle poche piccole case editrici italiane in crescita, e forse l’unica (stando almeno a quanto gli altri dicevano e dicono). Meno di due anni dopo, concorrevamo ai principali premi nazionali e si parlava bene dei nostri libri sulle più importanti testate nazionali.
Ciò non toglie che Luigi Bernardi avesse ragione.
Da anni, ormai, le personalità più influenti in editoria distorcono le idee stesse di scrittura e letteratura. Non importa qui stabilire gli scopi di certe politiche, ma che tali politiche siano in atto è innegabile.
L’etica (anche lavorativa), l’onestà (anche intellettuale) e soprattutto la straordinaria potenza politica e sociale della letteratura sono in crisi nera. Non parlo della crisi economica – che c’è, ed è grave, ma è un’altra cosa. Parlo di problemi serissimi di disonestà (anche intellettuale), parlo di menzogne, di esaltazione di valori sbagliati, parlo di esistenze sprecate, di tempo e soldi rubati a tutti, autori e lettori. Parlo di politiche a-culturali che hanno ormai incistato nel pensiero comune l’idea che il libro sia un prodotto da supermercato, laddove è non solo metro di civiltà, ma è anche evoluzione personale, ed è piacere puro, uno dei più irrinunciabili che io conosca.
Negli anni di lavoro insieme, Bernardi mi ha insegnato anche a fronteggiare la paura. Ogni volta che mi parlava di cadute, io imparavo che, quando si cammina su terreni accidentati, cadere fa parte dell’atto di camminare. E che a volte, rialzandosi, è bene cambiare strada.
Quel pomeriggio del dicembre del 2010, dopo il secondo caffè, mi disse che avrebbe aspettato un bel po’, prima di comunicare a tutti che lasciava a me la direzione di Perdisa Pop. Avrebbe smesso ufficialmente all’inizio di aprile 2011: doveva essere aprile, mi spiegò, perché aveva iniziato a lavorare in editoria ad aprile del 1978 e voleva smettere esattamente al compimento del trentatreesimo anno di attività.
La sua fissazione per la precisione matematica era da Guinness. Ne rideva lui stesso, ma gli piaceva troppo, non poteva resisterle. E così sono diventato ufficialmente direttore editoriale il 5 aprile del 2011.
Questo per spiegarvi il motivo per cui ho atteso fino a oggi per comunicarvi quanto segue.
È per me una specie di tributo: oggi, 5 aprile 2014, la mia direzione di Perdisa Pop compie tre anni tondi, ed è quindi il giorno migliore per annunciare che non continuerà.
I motivi non vi importino. Di fatto, sono venute meno le condizioni basilari perché io possa continuare a svolgere concretamente questa attività. E a voi basti sapere che Perdisa Pop continua regolarmente a vendere i titoli in catalogo.
Quanto a me, vi darò notizie a tempo debito. Lo farò molto presto, ma non subito: se c’è un’altra cosa che mi ha insegnato Bernardi sull’editoria è che è piena di orecchie pericolose o, come avrebbe detto lui, di teste di cazzo.
In ogni caso sto lavorando. E non da solo, né solo per me stesso.
I tempi sono difficili e conoscere bene il proprio lavoro non è più sufficiente. Ma mentre assistiamo allo strangolamento di professioni fondamentali, tendiamo a dimenticare cosa siamo, tendiamo a dimenticare che l’editoria e la scrittura non possono e non devono essere considerati come lavori da mercanti, perché non lo sono.
E va precisato che non lo sono proprio, in concreto, che non si tratta cioè di avvolgerli in una coltre di romanticismo, ma di prendere coscienza di una realtà: l’atto di leggere è diverso dall’atto del comprare o del consumare prodotti alla moda. Ha un altro mercato, un altro target.
In questo contesto angosciato e sfiancante, dove si continua ad alimentare un’idea malsana di cultura e di letteratura, resto convinto che si possa reagire.
Occorre però il coraggio di farlo davvero. Il che, per chiunque come me lavora in questi ambiti, sembra difficile. Non siamo eroi, siamo persone con altre competenze. E siamo abituati a dubitare.
Solo che, assuefatti all’idea che sarebbe meglio non rischiare, alle volte rischiamo molto di più: accettiamo compromessi assurdi che ci porteranno a lavorare male e a fallire comunque, scontenti dei risultati e senza nemmeno un grazie da portarci a casa.
Quello che invece farò io è raccogliere le forze ancora una volta e ancora una volta creare, per quanto possibile, nuove occasioni. Ci sono competenze da mettere a frutto, voci da ascoltare, percorsi da scoprire, follie da realizzare, rabbia da usare come carburante.
Prendere le distanze da certe logiche e da certi mestieranti non è un vezzo artistico, è nostro dovere professionale.
Se preferiamo rimanere sui tristi sentieri tracciati da altri, piuttosto che indicarne di nuovi, non siamo scrittori, non siamo artisti, e non siamo editori. Se non sappiamo osare, non siamo ciò che millantiamo di essere, né mai potremmo esserlo.
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15/01/14
L'ultimo libro di Valter Binaghi
Pubblico anche qui la mia nota introduttiva al romanzo Nome al tavolo Blackjack dell'amico Valter Binaghi, scomparso nel luglio del 2013.
Il romanzo che avete tra le mani è l’ultimo di Valter Binaghi. All’inizio dell’estate del 2013 fu lui stesso a dirmelo al telefono: «Questo sarà il mio ultimo libro». Era il suo modo di comunicarmi quanto si fosse aggravato.
Avevamo da tempo fissato l’uscita in autunno. Avremmo dovuto lavorarci in estate, ma in realtà lo stavamo facendo dall’inizio dell’anno, sempre al telefono: Valter mi chiamava per chiedermi opinioni su possibili modifiche e ogni volta ribadiva che durante l’editing avrei dovuto essere inflessibile, senza limitarmi nelle critiche e nei suggerimenti. Non che fosse davvero perplesso. Gli piaceva discuterne e confrontarsi con me, ma secondo lui il romanzo era finito.
La notizia della sua morte mi arrivò poche settimane dopo quella telefonata. Era il 12 luglio del 2013.
Il romanzo che avete tra le mani è l’ultimo di Valter Binaghi. All’inizio dell’estate del 2013 fu lui stesso a dirmelo al telefono: «Questo sarà il mio ultimo libro». Era il suo modo di comunicarmi quanto si fosse aggravato.
Avevamo da tempo fissato l’uscita in autunno. Avremmo dovuto lavorarci in estate, ma in realtà lo stavamo facendo dall’inizio dell’anno, sempre al telefono: Valter mi chiamava per chiedermi opinioni su possibili modifiche e ogni volta ribadiva che durante l’editing avrei dovuto essere inflessibile, senza limitarmi nelle critiche e nei suggerimenti. Non che fosse davvero perplesso. Gli piaceva discuterne e confrontarsi con me, ma secondo lui il romanzo era finito.
La notizia della sua morte mi arrivò poche settimane dopo quella telefonata. Era il 12 luglio del 2013.
18/12/12
Interviste credibili: Antonio Paolacci
[Gianni Montieri intervista Antonio Paolacci per Poetarum Silva]
Ciao Antonio, come ci si sente a ritrovarsi con un terremoto sotto il culo?
Più o meno come il personaggio di John Travolta nella scena di Pulp Fiction in cui esce dal gabinetto e c’è Bruce Willis. Ciao Gianni.
Bologna (la città in cui vivi) com’è in questi anni? Com’è cambiata? Cosa le è rimasto addosso di quel fascino che la rendeva (a seconda dei casi) “la dotta” “la viva” “la saggia” (questa me l’ha detta un amico anni fa)?
Ho idea che anche in questa intervista sembrerò uno che non vede l’ora di lamentarsi. Molto bene. La risposta è: assai poco. Di dotto e saggio a Bologna è rimasto un solido ricordo e poco più, però diciamo che a suo favore ha la scusa di essere in compagnia di tutta l’Italia.
Quando ti arriva sul tavolo un manoscritto qual è la prima cosa che fai o che pensi, prima di cominciare a leggerlo?
Prima lo giudico dall’aspetto. Per quanto possa sembrare ingiusto, non lo è: la mediocrità di certi lavori si capisce da come sono presentati. C’è chi perde tempo in copertine sceme, disegni da scuola elementare, impaginazioni estrose, ecc. Poi ci sono le lettere di presentazione dalle quali si capisce che gli autori sono spesso vittime di equivoci e luoghi comuni sulla scrittura e l’editoria. In ogni caso, quando poi mi metto a leggere, quello che di solito penso è la nota frase: «Il cucchiaio non esiste».
Dal 2011 sei il Direttore di Perdisa Pop, quanto è divertente e quanto è difficile?
Difficile è fare questo mestiere per chiunque, negli ultimi anni, perché occorre combattere con soggetti esterni alle case editrici, persone che decidono troppo e con criteri discutibili. Parlo di chi ha il potere di dare visibilità ai libri, dai giornali ai premi letterari, dai distributori ai librai, i quali dettano spesso legge – o ci provano – perfino nei nostri piani editoriali, consigliando per esempio un certo cerchiobottismo, dal momento che trovano saggio accontentare un po’ tutti e non offendere nessuno. E io sono pessimo, nel cerchiobottismo. Però posso dire che ho imparato ad affrontare diverse difficoltà a modo mio, riuscendo a portare avanti quello che credo sia giusto senza accettare troppi compromessi. Ecco, di divertente c’è quest’ultima cosa, tra le altre che credo siano più intuibili.
Tutto quello che ti viene in mente se ti dico: David Foster Wallace.
Tutto? Per carità, facciamo che ti dico solo una cosa piccola e un po’ personale, altrimenti non riuscirò mai a finire questa intervista. Penso che il suo modo di intendere e vivere la scrittura fosse esemplare. Credo sia anche per questo che nel leggerlo si sentono il potere e il piacere della migliore letteratura, al di là di ogni faccenda teorica, stilistica o tematica. Non perdeva mai di vista il fatto che osservare e raccontare il mondo con attenzione, ma anche con la consapevolezza di quanto sia facile sbagliare, è più che la base di un mestiere, è il punto di partenza di tutte le nostre azioni, quindi è concretamente più importante di ogni altra cosa. Wallace è uno dei pochi, pochissimi, scrittori che nei momenti di sconforto riescono a ricordarmi perché ho scelto di scrivere. La mia ammirazione non c’entra con il fanatismo e tanto meno con l’emulazione. C’entra semmai con la gratitudine.
Una cosa che ti viene in mente se ti dico: Luigi Bernardi.
Senza dubbio il fatto che da ragazzino io ho passato una lunga, bellissima giornata con Michel Platini, e lui no. (Questa la pagherò con un sonoro vaffanculo.)
Ma davvero a Bologna state sempre a mangiare?
Guarda. A Bologna non sanno fare i dolci, per non parlare del pane. Bisogna che questo si sappia.
Parliamo di e-book, il tuo ultimo libro “Tanatosi” è uscito soltanto in formato elettronico, seguito da altri tre titoli (di Domenichini, Naspini e Bernardi), è molto più di una scelta di campo.
È insieme un progetto, un esperimento e una provocazione. Proporre certi autori italiani ai lettori italiani come si è sempre fatto, oggi sembra una specie di impresa, ostacolata da distributori, giornali, librerie… In un momento come questo può valere la pena fermarsi un attimo e fare un passo indietro per osservare il panorama in prospettiva. E magari porsi delle domande basilari, per esempio su cosa siano per noi la lettura, la scrittura, la letteratura, su quanto pensiamo che possa durare nel tempo il singolo libro, su cosa ci aspettiamo che ci dia in cambio dei soldi o del lavoro che ci chiede. Che peso gli diamo in generale, insomma. E in questo “noi” includo tutti: lettori, scrittori, editori, critici, distributori e librai. Gli ebook sono ancora una specie di mostro, nell’immaginario di molti. Ma ideare questa collana e farla partire con un titolo mio nel 2012 è stata una di quelle idee che vengono in un lampo e quadrano da subito. Per intenderci: credo che Tanatosi sia uno dei miei scritti migliori, se non il migliore in assoluto, e se fino a oggi è anche quello che ha venduto meno, non mi importa. Sapevo che sarebbe andata così. Il punto è che è là, disponibile in pochi minuti e a pochi euro, per chiunque abbia accesso a internet e voglia di leggerlo.
Ti ho conosciuto come scrittore, qualche anno fa, guardando il catalogo di Perdisa Pop, scelsi il tuo libro “Salto d’ottava” perché mi piaceva il titolo (ebbene commetto ancora simili peccati, perché tu no?) poi mi è piaciuto pure il libro, lo stile e quel misto di realismo e visionarietà. Mi piacque sia la storia che lo stile, non ho ancora letto “Tanatosi” (perché ho rimandato l’acquisto dell’E-reader, vabbè a Natale arriva) ma tutti me ne parlano in maniera entusiasta, mi dici due parole sulla storia?
È la storia più lineare che abbia scritto finora. Di solito cerco la frantumazione, gli spostamenti, disegnando percorsi più mentali che cronologici. In questo caso volevo raccontare qualcosa di molto preciso, strettamente legato al nostro tempo in relazione al passato e a un possibile futuro, e la linearità mi è sembrata la scelta migliore. Ma è anche il lavoro in cui, per la prima volta, ho immaginato una realtà diversa dalla nostra. Quando il contesto in cui siamo è raccontato fin troppo, e spesso male, la scrittura può mostrarlo forse meglio allontanandosene. Al momento questo mi interessa particolarmente. Anche il romanzo che sto scrivendo viaggia nella stessa direzione.
Pensando all’editoria di adesso, guardando da spettatore esterno, mi pare di non capirci molto, da dentro com’è? Cosa cavolo stanno combinando?
Nell’ultimo anno, in alcune interviste e interventi, ho cercato più volte di spiegare quello che sta succedendo dal punto di vista tecnico: modifiche nocive al sistema distributivo e della vendita, nascita di un monopolio di tipo aziendale, strategie di marketing, faziosità di critica letteraria e informazione. Come sai, è un discorso complicato e difficile da sintetizzare, ma in effetti è anche un po’ limitativo, perché a forza di parlare di questioni specifiche, come la visibilità dei libri e il sistema distributivo, rischiamo di perdere il quadro generale. Anzi, gli stessi libri sono solo un dettaglio, per quanto importantissimo, di un contesto culturale gestito male, dove la qualità e la passione sono considerati interessi di nicchia, questioni di secondo piano. Musica, cinema, teatro: in Italia c’è una seria crisi di contenuti, non solo economica. Mancano le competenze nella scelta, perché spesso a decidere sono le persone sbagliate. Il guaio è che ciò che racconta il telefilm Boris, per intenderci, a proposito della tivù, sta succedendo anche all’editoria. E paragono il libro all’intrattenimento televisivo proprio per non dare l’impressione di voler difendere soltanto la letteratura alta o quella che capiscono in pochi. Lasciamo perdere il capolavoro e il mito del genio incompreso: questo Paese è pieno di professionisti sconosciuti che saprebbero fare musica, film e spettacoli molto meglio di quelli che si vedono di più in giro. E lo stesso vale per la scrittura.
Che musica ascolti? Qual è per te “L’album”?
Non ce l’ho, l’album. Sono uno che va a momenti. Negli anni ho consumato dischi di De Andrè come dei Nirvana, dei C.S.I. come dei Depeche Mode, dei Radiohead come di Piero Ciampi. E fai conto che ancora adesso ogni tanto riascolto i Bluvertigo, per dire.
Se guardo al vostro catalogo trovo alcuni degli scrittori italiani più interessanti, penso (tra gli altri) a Merico, Saporito, Liberale, Domenichini, Ronco, Palazzolo, Naspini e il nuovissimo romanzo di Luigi Romolo Carrino, perché sono così difficili da promuovere e, spesso, da trovare in libreria (manco fossero libri di poesia)?
Anche questa è una risposta difficile da dare in breve. Partiamo dalle librerie, cioè da questioni più oggettive. C’è un lato tecnico che andrebbe spiegato meglio di come possa fare io qui, almeno a chi non conosce il sistema distributivo. Diciamo solo che i soggetti coinvolti (ovvero i distributori, i promotori e i librai), fino a pochi anni fa autonomi, sono oggi per lo più di proprietà dei pochissimi grandi editori italiani. Le conseguenze sono intuibili: è come se pian piano tutti i negozi di alimentari e supermercati fossero sostituiti da grandi ipermercati della Barilla, mettiamo, e voi foste produttori di un’altra marca di pasta. A questo si aggiunge il fenomeno stesso delle grandi librerie di catena, dove al posto di librai informati e competenti, a volte ci sono ragazzi sottopagati che parlano come commessi di una boutique («Quest’anno si porta molto il romanzo erotico»). Quanto alla promozione, il discorso è un altro ancora, e anche questo difficile da riassumere. Ma di sicuro posso dire che molti autori meritevoli vengono ignorati dalla critica e dai premi letterari per ragioni stupide come il fatto di non avere amici influenti. D’altra parte, a sfogliare certe pagine culturali, a volte sembra di leggere quella specie di rivista di Trenitalia che parla sempre benissimo dei treni. Non so se mi spiego.
La prossima volta o io a Bologna o tu a Milano ci si becca a cena, perché tutto ‘sto on-line alla lunga stanca, ok?
Contaci, e con menù rigorosamente campano, eh, mica cotolette e tortellini.
(c) Gianni Montieri
21/06/11
Antonio Paolacci al timone di Perdisa Pop tra la buona scrittura e il futuro dell’editoria
- Partirei subito col chiederle cosa ne pensa dei nuovi supporti editoriali: mi riferisco ai lettori elettronici di ebook e agli ebook stessi? Avete intenzione di investire in tal senso?
Lo abbiamo già fatto. Siamo stati tra i primi in Italia. Molti titoli del nostro catalogo sono già disponibili anche in formato elettronico, altri ne arriveranno. Si possono acquistare sui principali siti che forniscono il servizio.
- Quali sono le sue idee, la sua linea editoriale?
Fin da quando è nato, il marchio Perdisa Pop propone storie forti, non consolatorie, non fasulle. Quello che comunque più ci interessa è la qualità della scrittura.
- Togliamoci subito la fatica: quale tipo di insegnamento le ha lasciato Luigi Bernardi?
Ho lavorato con lui per anni e non saprei sintetizzare in poche righe questa esperienza lunga e importante. Bernardi mi ha permesso di portare avanti le mie idee, anzitutto. Ha creduto nella mia scrittura. Mi ha insegnato molto con la sua. E continua a farlo.
- Cosa pensa delle community di lettori online, del modo di diffondere la cultura usando metodi diversi affiancati gli uni agli altri?
Internet è uno strumento indispensabile per gli editori come noi. Va anche detto che però non basta. La rete è una piazza enorme che può contenere di tutto. Si incontrano voci brillanti, ma anche superficialità, emozioni personali oppure mode che appena nate sono già noiose. Per non parlare dei gruppi di amici che si scambiano favori o degli scrittori che si elogiano l’unl’altro per pura cortesia. Il problema principale, per chi cerca consigli di lettura, è che oggi in Italia scarseggia la vera critica letteraria. Parlo di una conoscenza, una competenza libera e in grado di riconoscere la qualità senza pregiudizi.
- Vorremmo sapere come intende il rapporto con gli autori e dato il grosso problema dell’imporsi nel vasto mondo editoriale, come pensa di far sì che Perdisa Pop raggiunga il maggior numero di lettori?
Non si tratta di raggiungere il maggior numero possibile di lettori, ma di raggiungere i più svegli. Per vendere a chiunque, anche a chi non sarebbe interessato ai libri, gli editori le provano tutte: copertine assurde, storie per sempliciotti, prodotti seriali, campagne di vario genere, nuove correnti improvvisate; operazioni rivolte a un consumatore da incantare. Raggiungere i lettori in un contesto simile è la vera sfida, ma se il marchio Perdisa Pop si è fatto apprezzare è anche perché non ha mai accettato questa logica. Il mio lavoro non è vendere a chiunque, ma offrire buoni libri a chi cerca buoni libri.
- Cosa pensa che distingua Perdisa Pop da ogni altro editore? Qual è il suo atto di libertà rispetto al contesto editoriale attuale?
Siccome i lettori sono davvero pochi, rispetto agli spettatori televisivi, l’editoria italiana sembra aver deciso di trasformarsi in una forma di intrattenimento. Certe volte, quando giro in libreria, mi sembra di fare zapping in tivù. Si direbbe che al momento gli editori siano iprimi a non credere nella buona scrittura. Il che è tragico, oltre che paradossale. In un sistema che punta sui libri scritti da comici, calciatori, o in generale sulle facce note grazie al piccolo schermo, la prima cosa da fare è proporre letteratura.
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