05/04/14

Un giorno vi racconterò cos’era davvero Perdisa Pop | Articolo


Non so quante volte ho sentito Luigi Bernardi iniziare una frase con «Un giorno vi racconterò».
Era il suo modo per far capire ai meno informati che l’editoria è molto diversa da ciò che credono sia: «Un giorno vi racconterò come lavorano davvero quelli di [una nota casa editrice]», diceva. Oppure: «Un giorno vi racconterò come la pensa davvero [uno scrittore famoso]».
Poi questo giorno non veniva mai, non raccontava niente alle persone di cui non si fidava, ma riusciva comunque a insinuare dubbi, che è poi il primo dovere del vero narratore.

Quando mi annunciò che avrebbe lasciato l’editoria, per me non fu una sorpresa. Da almeno un paio d’anni mi diceva che era stufo, che voleva scrivere e basta, che appena possibile lo avrebbe fatto. E io, per quanto temessi che alle sue dimissioni avrei perso il lavoro, non cercavo di dissuaderlo: ogni volta gli dicevo che l’avrei fatto anch’io, se avessi potuto; che se io ero stanco dopo pochi anni, figurarsi lui dopo più di trenta.
La notizia vera e propria me la diede alla fine del 2010. Della sua malattia non sapeva ancora nulla. Smetteva di fare l’editor perché non ne poteva più e voleva scrivere, scrivere e basta.

Mi invitò a pranzo a casa sua. Mangiammo crescentine e tigelle parlando delle cose che stavamo scrivendo, bevemmo chinotto, due caffè a testa, dopodiché mi disse che aveva deciso: smetteva, e voleva lasciare a me la direzione di Perdisa Pop.
Mi chiese se me la sentivo. Risposi di sì, naturalmente. A quel punto diventò serio e mi fece un discorso che non dimenticherò.
Disse che in oltre trent’anni non aveva mai visto l’editoria conciata tanto male. Un mestiere allo sfascio, diceva, dove per fare qualcosa di interessante ti tocca combattere in modo iniquo con un esercito di imbecilli che affossano l’intelligenza.
Aggiunse che anche Perdisa Pop non avrebbe retto ancora a lungo. Per cui dovevo pensarci bene: se accettavo di dirigere il marchio dovevo accollarmi il grosso rischio che la fine di Perdisa Pop – se fosse arrivata dopo pochi mesi dalle sue dimissioni – sarebbe stata attribuita a me.
Gli chiesi se secondo lui poteva durare almeno un anno. Mi rispose che, nelle condizioni in cui si era all’epoca, sarebbe stato difficile. Occorreva inventarsi qualcosa, e dovevo farlo io, se accettavo, dal momento che lui non ne poteva più.

Difatti, nel settembre del 2011, Alberto Perdisa mi comunicò che intendeva chiudere di lì a due mesi.
Ne erano passati appena cinque dalle dimissioni di Bernardi e il primo titolo con me in veste di direttore editoriale non era ancora nemmeno in libreria. Come editor ero bruciato.
O meglio, avevo due sole possibilità: diventare uno dei troppi aspiranti editor armati di curriculum sui pianerottoli di altri editori (con l’aggravante di aver diretto un marchio giusto il tempo della sua fine), oppure combattere con l’unica arma che avevo: altri due mesi prima della chiusura.

Ridisegnai piani editoriali e strategie aziendali, cercai autori precisi da pubblicare, reimpostai la comunicazione della casa editrice… Le mie mosse erano bollate come fallimentari da quasi tutti: si trattava di dichiarare apertamente la nostra politica e prendere la strada contraria a quella imboccata dall’editoria attuale, ridurre le uscite annuali, licenziare i promotori, arrivare ai lettori aggirando la distribuzione, e pubblicare con orgoglio testi non commerciali, scritti da italiani conosciuti solo a pochi e caratterizzati anzitutto da una buona scrittura. Il che significava niente menzogne ai lettori, niente mode del momento, nessun preconcetto sulla stupidità del pubblico, nessuna marchetta, nessun compromesso.
E all’inizio del 2012 c’erano già troppe buone notizie perché l’editore potesse mandarmi a casa: i nostri lettori aumentavano, arrivavano ottime recensioni e molti complimenti. In condizioni migliori avremmo potuto crescere notevolmente, ma, anche con i nostri scarsi mezzi e nelle difficoltà generali, un anno dopo eravamo una delle poche piccole case editrici italiane in crescita, e forse l’unica (stando almeno a quanto gli altri dicevano e dicono). Meno di due anni dopo, concorrevamo ai principali premi nazionali e si parlava bene dei nostri libri sulle più importanti testate nazionali.

Ciò non toglie che Luigi Bernardi avesse ragione.
Da anni, ormai, le personalità più influenti in editoria distorcono le idee stesse di scrittura e letteratura. Non importa qui stabilire gli scopi di certe politiche, ma che tali politiche siano in atto è innegabile.
L’etica (anche lavorativa), l’onestà (anche intellettuale) e soprattutto la straordinaria potenza politica e sociale della letteratura sono in crisi nera. Non parlo della crisi economica – che c’è, ed è grave, ma è un’altra cosa. Parlo di problemi serissimi di disonestà (anche intellettuale), parlo di menzogne, di esaltazione di valori sbagliati, parlo di esistenze sprecate, di tempo e soldi rubati a tutti, autori e lettori. Parlo di politiche a-culturali che hanno ormai incistato nel pensiero comune l’idea che il libro sia un prodotto da supermercato, laddove è non solo metro di civiltà, ma è anche evoluzione personale, ed è piacere puro, uno dei più irrinunciabili che io conosca.

Negli anni di lavoro insieme, Bernardi mi ha insegnato anche a fronteggiare la paura. Ogni volta che mi parlava di cadute, io imparavo che, quando si cammina su terreni accidentati, cadere fa parte dell’atto di camminare. E che a volte, rialzandosi, è bene cambiare strada.

Quel pomeriggio del dicembre del 2010, dopo il secondo caffè, mi disse che avrebbe aspettato un bel po’, prima di comunicare a tutti che lasciava a me la direzione di Perdisa Pop. Avrebbe smesso ufficialmente all’inizio di aprile 2011: doveva essere aprile, mi spiegò, perché aveva iniziato a lavorare in editoria ad aprile del 1978 e voleva smettere esattamente al compimento del trentatreesimo anno di attività.
La sua fissazione per la precisione matematica era da Guinness. Ne rideva lui stesso, ma gli piaceva troppo, non poteva resisterle. E così sono diventato ufficialmente direttore editoriale il 5 aprile del 2011.

Questo per spiegarvi il motivo per cui ho atteso fino a oggi per comunicarvi quanto segue.
È per me una specie di tributo: oggi, 5 aprile 2014, la mia direzione di Perdisa Pop compie tre anni tondi, ed è quindi il giorno migliore per annunciare che non continuerà.

I motivi non vi importino. Di fatto, sono venute meno le condizioni basilari perché io possa continuare a svolgere concretamente questa attività. E a voi basti sapere che Perdisa Pop continua regolarmente a vendere i titoli in catalogo.
Quanto a me, vi darò notizie a tempo debito. Lo farò molto presto, ma non subito: se c’è un’altra cosa che mi ha insegnato Bernardi sull’editoria è che è piena di orecchie pericolose o, come avrebbe detto lui, di teste di cazzo.

In ogni caso sto lavorando. E non da solo, né solo per me stesso.
I tempi sono difficili e conoscere bene il proprio lavoro non è più sufficiente. Ma mentre assistiamo allo strangolamento di professioni fondamentali, tendiamo a dimenticare cosa siamo, tendiamo a dimenticare che l’editoria e la scrittura non possono e non devono essere considerati come lavori da mercanti, perché non lo sono.
E va precisato che non lo sono proprio, in concreto, che non si tratta cioè di avvolgerli in una coltre di romanticismo, ma di prendere coscienza di una realtà: l’atto di leggere è diverso dall’atto del comprare o del consumare prodotti alla moda. Ha un altro mercato, un altro target.

In questo contesto angosciato e sfiancante, dove si continua ad alimentare un’idea malsana di cultura e di letteratura, resto convinto che si possa reagire.
Occorre però il coraggio di farlo davvero. Il che, per chiunque come me lavora in questi ambiti, sembra difficile. Non siamo eroi, siamo persone con altre competenze. E siamo abituati a dubitare.
Solo che, assuefatti all’idea che sarebbe meglio non rischiare, alle volte rischiamo molto di più: accettiamo compromessi assurdi che ci porteranno a lavorare male e a fallire comunque, scontenti dei risultati e senza nemmeno un grazie da portarci a casa.

Quello che invece farò io è raccogliere le forze ancora una volta e ancora una volta creare, per quanto possibile, nuove occasioni. Ci sono competenze da mettere a frutto, voci da ascoltare, percorsi da scoprire, follie da realizzare, rabbia da usare come carburante.
Prendere le distanze da certe logiche e da certi mestieranti non è un vezzo artistico, è nostro dovere professionale.
Se preferiamo rimanere sui tristi sentieri tracciati da altri, piuttosto che indicarne di nuovi, non siamo scrittori, non siamo artisti, e non siamo editori. Se non sappiamo osare, non siamo ciò che millantiamo di essere, né mai potremmo esserlo.