La gente ruota | Racconto



Il professore, mezzo fuori dalla finestra, artiglia il termosifone con una mano e agita l’altra.
«Va tutto bene, signora, tutto benissimo».
È rivolto a una finestra in alto, sulla sinistra. Dove c’è la pazza del condominio.
La donna è in piedi sul davanzale, scalza, con sei piani di volo a un passo. Il vento le muove la sottana. Ha aperto la finestra come al solito, dopodiché si è issata a piedi nudi.
Stanno arrivando anche i pompieri. Si sente la bitonale.
«Tutto benissimo, signora».
Finestre si aprono, gente s’affaccia. Giù in strada un tizio ha sentito il professore urlare e ha alzato gli occhi, avvistato la pazza, smesso di camminare.
Altri passanti lo imitano. Due ragazze con gli zainetti direzionano i telefonini, scattano foto e le inviano.
La gente vuole solo guardare, si dice il professore. La gente ruota e ogni tanto si ferma per vedere se qualcuno viene giù.
Urla rivolto alla strada: «Tanto non si butta. Non si butta mai».

La pazza è una pazza-tipo, sulla sessantina, spettinata e grigiastra in stile einsteiniano, lo sguardo annegato dagli psicofarmaci, concentrata su qualcosa di assente.
È in buoni rapporti col vicinato, una che regala torte, pasta fatta in casa. Vive da sola ma cucina pure per la famiglia che non ha. Ogni sera gli odori fanno strani giri per le scale, s’incuneano, piovono nella tromba, declinano verso gli ammezzati e arrivano fino alle narici del professore, a mettergli fame di cenette calde, voglia di prendere moglie.
Il professore è uno di quelli che ingrassano ai fianchi come le donne, il culo enorme, bombatura da matrioska. È semipulito in modo permanente, non lercio ma nemmeno mai del tutto sgrassato. A scuola va sempre con la stessa giacca. Se avesse una moglie, avrebbe anche qualche buona imbeccata sul vestiario.
«Proprio tutto benissimo», ripete ancora, sempre più sporto verso l’esterno.
Quando la mano smarrisce il termosifone, i piedi gli scivolano sul parquet. È un attimo. La pancia gelatinosa si schiaccia contro lo spigolo, molleggiandolo piedi in aria.
Le ragazze sui gradini della chiesa vedono i suoi scatti convulsi ed emettono gridolini. Il professore si sbraccia, mulina ogni arto. Riesce ad arpionare uno stipite.
Per alcuni secondi rimane in una posa da uomo vitruviano, immobile a braccia larghe, ben agganciato ai bordi del rettangolo. Poi si spinge dentro e chiude d’istinto la finestra, impallidito. Si volta di schiena, appoggia il culone e prende fiato.
Guarda l’arredamento, la poltrona, il libro aperto sul tavolinetto, i suoi occhiali da lettura presi al supermercato, che erano gialli e ora sembrano grigi. Tutto, di colpo, gli sembra tendere al grigio. Il che lo lascia perplesso, almeno fino a che sente i pompieri su per le scale, di corsa, bardati e armati d’ascia. Allora prende aria dal naso e strilla in direzione della porta: «Tanto non si butta. Non si butta mai».

Che hanno tirato dentro la donna, poco dopo, lo capisce guardando i passanti applaudire, assiepati sui gradini della chiesa. Li osserva da dentro, attraverso i vetri della finestra chiusa. C’è affollamento, adesso.
Alla fine del battimano alcuni restano a commentare, altri iniziano ad allontanarsi piano, scuotendo la testa. Il professore riconquista la poltrona e il libro. Che non c’era proprio niente da applaudire, bofonchia mentre inforca gli occhiali, che tanto quella non si sarebbe buttata. Non si butta mai.