29/06/15

Quel 13 giugno

Delle molte cose vissute in quei giorni vorrei scrivere con calma e per bene, farle confluire in un lavoro lungo e importante. Lo farò, quando e se verrà il momento. Non ora.
Ora non so ancora raccontarle. Ho l’immagine di me che correvo per Genova, nei molti momenti da solo, in scooter o a piedi lungo i viali dell’ospedale, mentre le emozioni mi masticavano e sputavano.
Dicono che col tempo si dimenticano i particolari. Le madri scordano l’intensità del dolore, i padri perdono memoria dei dettagli critici, delle preoccupazioni e delle difficoltà. Dopo c’è la gioia, c’è la vita. E la nuova vita spazza via le zavorre, gli ostacoli superati, le paure soprattutto. Sarebbe stato bello riuscire a registrare i pensieri crudi di quelle ore, intraducibili a parole e illuminanti, per ricordare quel senso di comprensione profonda, che ho avvertito durante le lunghe giornate appena trascorse. Volevo scrivere pubblicamente anche dei momenti brutti, far sapere in giro che se il mondo è pieno di idioti, gli ospedali anche. Avrei voluto scrivere di certi medici saccenti, quelli per esempio pagati per indurre le madri all’uso del latte artificiale, e dell’assurdità della burocrazia italiana, degli impiegati e degli uffici, dell’arroganza degli ignoranti, della cultura dominante di un Paese che sembra fare di tutto per negarsi la bellezza.
Ma in più di due settimane non ho avuto il tempo nemmeno per gli appunti. Dovevo correre avanti e indietro per farmacie, ospedali, uffici pubblici, negozi per l’infanzia; dovevo fare telefonate, combattere con le visite mediche, sterilizzare oggetti, lavare vestitini, permettere a Paola di riposare e riprendersi. E nei pochi momenti di pace dovevo cercare di dormire almeno un po’, per poter essere in grado di correre ancora e magari di starmene anche il più possibile lì, fermo, immobile a contemplare in silenzio lo spettacolo della mia famiglia che dorme.

Dicono che col tempo si dimenticano i particolari e io ci credo. Già adesso, a poco più di due settimane, ne ho lasciati per strada molti. Non ricordo certi dettagli e confondo la cronologia di alcuni fatti. Ma quei minuti li ricorderò sempre. Ogni secondo, ogni passaggio. La gente che entrava e usciva. La gente che parlottava intorno a noi, preoccupandoci. Erano estranei e circondavano il letto, mentre io fissavo Paola negli occhi e vedevo in lei una forza che non so descrivere, una forza infinita, preesistente a noi.
Se ripenso a quelle ore mi viene da stringere i pugni. Sono state terribili, meravigliose. Ho avvertito il panico che diventava forza, ho visto gli effetti di un dolore che io non potrò mai conoscere. Fino a quando il mondo si è fermato, proprio fermato. L’universo ha smesso di roteare per un attimo, come per accordarsi al respiro di Paola, nell'istante in cui sei sgusciato fuori, Niccolò, e io ti ho visto e tu eri ogni cosa: eri passato e futuro, eri potenza e fragilità, bellezza e compimento. E la prima cosa che hai fatto in assoluto è stata urlare di rabbia, credimi. Non di paura, non di dolore. Ti ho visto bene. Era rabbia, una rabbia perfetta, pura, magnifica.
Erano le 9.40 del 13 giugno 2015.