08/02/16

Tutti i vip che mi hanno conosciuto | | Michel Platini

Questa rubrica è un mio omaggio ad Andrea Pazienza, al quale ho rubato un po' l'idea di fondo. Tutti i fatti raccontati sono accaduti realmente. 

a L. B. 
Subito dopo la laurea, ho passato un mese a Parigi.
Una sera, pochi giorni prima di partire, ho incontrato una ricercatrice universitaria di ventiquattro anni. A quell’età di solito noi italiani ci laureiamo appena, se siamo bravi, lei invece entro un paio di stagioni sarebbe diventata docente universitaria di Sociologia.
Parlava un ottimo italiano, anche perché lo studiava. Ci studiava, anzi. La sua ricerca era sul nostro Paese, in particolare su alcuni fenomeni grotteschi della politica italiana, ovvero la Lega lombarda.
Quella sera, le chiesi a cosa l’avessero portata i suoi studi, quale fosse la tesi che stava cercando di dimostrare. In breve, le dissi. Insomma il nocciolo, ecco, in sintesi estrema. La sua idea degli italiani in soldoni. E lei mi rispose, precisa e sintetica. Del resto, la sua idea degli italiani era semplice e granitica.
Dignité, mi disse, ils manquent de dignité.

Flashback.
Una Citroën entra dal cancello. Le gomme mormorano sul viale di ghiaia, verso i campi da tennis.
L’uomo che ci insegna il rovescio a due mani smette di lanciarci palline. Ammicca e ci indica l’auto. È arrivato, dice un coro nella mia testa. E la racchetta mi casca tra i piedi.
La Citroën rallenta, si ferma. Io sono una statua di sale, un metro e mezzo d’altezza, dodici anni ancora da compiere.
Dalla portiera vedo spuntare un arto, quell’arto: la stessa gamba che ha battuto non so quanti calci di punizione con precisione stomachevolmente assoluta. La gamba, quella gamba, aderisce salda al suolo e fa da perno per il resto del corpo, che emerge, reale e tridimensionale davanti a me.
I coetanei francesi sorridono dignitosi.
Noi marmocchi italiani gli frulliamo addosso, urlando come galline sgozzate il suo nome di battesimo pronunciato male, dementi e senza decenza.

È lui il mio primo vip.
I miei incontri con le celebrità iniziano con Michel François Platini (Jœuf, 21 giugno 1955) e iniziano con questa immagine precisa: una ventina di bambini italiani me compreso, che corre a tutta forza e braccia scomposte per convergere su un calciatore spettinato, emettendo vocali aperte, soprattutto la e.
È l’estate del 1985. Nella stagione seguente, Platini chiuderà la sua carriera di calciatore. Ha trent’anni precisi. Io undici e somiglio a uno stelo con un paio d’occhialetti in cima.
Sono in Francia per due settimane, alloggio in un centro sportivo per bambini creato da Platini e dal tennista Yannick Noah. La vacanza è il premio di un concorso indetto da un giornalino.

Noi bambini italiani vincitori del concorso alloggiamo in un fabbricato tutto per noi. Gli edifici-dormitori sono in totale tre, e si chiamano come le squadre di calcio in cui ha giocato il campione.
Noi italiani siamo al Nancy. Dormiamo in camerette da quattro posti, con i letti a castello. Anche gli allenamenti di calcio li facciamo tra noi.
Però poi c’è il tennis. E quello lo condividiamo con i francesi. Tentare di isolarci non serve a niente.
Loro sono intorno.
Decine di mocciosi con la erre in gola e l’indice spianato.
Il dito sempre puntato contro di noi.
La risata sempre pronta a scoppiare.
Ci tormentano.
Ci deridono in continuazione.
Les italiens, dicono.
E ridono.
Poi, dopo, ridono ancora: Ah, ah, ah, les italiens.
Così, senza argomentare.

Dignité, diceva dunque la ragazza, vous manquez de dignité.
Eccomi di colpo neolaureato a Parigi, pensavo. L’appartamento per studenti in cui parlavo con la ragazza aveva il tipico fascino di certe abitazioni della vecchia Paname. Era cioè sbilenco.
Vous manquez de dignité, insisteva la ragazza. E io mi chiedevo il perché di questa caratteristica architettonica di certe case parigine: una specie di stortura intrinseca, difficile da definire con precisione, ma evidente. Forse, pensavo, il pavimento è in discesa. O forse il soffitto è irregolare. O sarà il disegno degli infissi, già: forse porte e finestre sono contorte come in un vecchio film espressionista.
La ragazza intanto mi riportava ai miei undici anni, al mio primo incontro con dei francesi. Lei non ridacchiava, questo no, ma pure era ossessiva, nel ripetermi la sua teoria accademica Vous manquez de dignité, mentre stringeva gli occhi e delimitava tra indice e pollice uno spazio di due centimetri, tre al massimo, per mostrarmi lo spessore esatto della suddetta dignité.

Flashback.
Nell’attimo in cui partiamo in corsa, Platini chiede a un armadio coi baffi di respingerci. L’armadio esegue, allarga le braccia e a manate larghe ferma parecchi marmocchi indegni, ma non tutti. Io sguscio via come la migliore anguilla, dribblo l’energumeno, barcollo in equilibrio precario, mi stiro in un semi-salto allungato al rallentatore.
Con due dita – l’anulare e il medio della destra – ottengo un gomito, un pezzetto di maglia: il cotone di Michel Platini aderisce ai miei polpastrelli e io avverto la scarica elettrica, un’esplosione da contatto, una bolla d’energia da cartone giapponese.
L’ho toccato, mi dico.
L’ho toccato, mi ripeto.
Beh non proprio, mi correggo. Più che altro la maglia.
Per cui ritento un nuovo allungo, ma l’uomo baffuto mi afferra. Mi strattona e io volo.
Una parabola all’indietro e plano, cado sulle ginocchia, me le sbuccio. Poi riprendo fiato e sollevo gli occhi.
Platini mi mostra un ghigno e si allontana coperto dalle guardie. Quando mi volto ritrovo lo stesso ghigno nelle facce dei bambini francesi rimasti a osservare la scena.
Si guardano un po’ tra loro, puntano gli indici, fanno partire le risate.

Se siete personaggi famosi, forse non sapete che vi può capitare una cosa del genere. Ruoli da eroe nei sogni dei bambini. Ma se siete quei bambini, sono certo che non avete idea di che cavolo vi stia succedendo.
L’idolatria è di natura proiettiva, direbbe un freudiano: con il fanatismo coltiviamo la nostra identità immaginaria tarandoci sull’apparenza di un altro. Di più: deleghiamo. Affidiamo ad altri il compito di sudare al posto nostro, così da vincere o perdere senza nessuna responsabilità.

Platini lo rivediamo verso sera. Si fa scattare qualche foto con noi. Lo studio con attenzione, ossessionato dai dettagli della sua normalità: la peluria sull’avambraccio, le rughe d’espressione, l’alone delle ascelle.
Il giorno dopo passiamo insieme a lui l’intero pomeriggio. Nella foto di gruppo vengo di traverso e con la faccia assorta. Di traverso perché sto guardando verso sinistra, i francesi che ridacchiano. Assorto perché sto pensando che la vicinanza fisica è un concetto sottovalutato.
A me – lo si vede bene ancora adesso dall’espressione della mia faccia in quella foto – la prossimità sta rivelando qualcosa di essenziale: Guarda, mi sta dicendo, il tuo eroe non è che un tizio.