27/01/17

La memoria

 
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. 
Queste parole di Primo Levi mi fanno pensare che oggi, nel Giorno della Memoria, si può scegliere se ricordare per ricordare, lasciando per così dire gli eventi in un immaginario passato, oppure farlo sottolineando il fatto che la memoria serve al nostro presente e al nostro futuro.

La comunicazione funziona da sempre meglio quando mette in atto una certa forma di lusinga dell'egoismo altrui. Ovvero è tanto più efficace quanto più fa notare (come Levi stesso diceva) che siccome l'orrore è accaduto, può accadere di nuovo. E se può tornare, allora può colpire noi o i nostri figli.

La comunicazione è più efficace quando ci chiama in causa in modo diretto, quando cioè il pensiero di essere noi le vittime possibili di un orrore ci tocca l'immaginario personale.
Funziona meno, quando riferiamo l'orrore al passato e lo descriviamo come un tempo e un luogo andati, che non torneranno, pensando ai fatti come a qualcosa di distante.
A meno che non si sia semplicemente umani. Nel qual caso è l'immedesimazione a rendere il passato qualcosa di nostro, qualcosa di così nostro da farci ripetere mille volte che no, noi non dimentichiamo.